Avete assistito alla puntata di Report con Sigfrido Ranucci che tuona contro i “piccoli chimici”? (https://www.raiplay.it/video/2023/12/Report—Puntata-del-17122023-f0f594e0-5ab5-4038-a982-16aad104fdf4.html)

Bene: amici degustatori seriali, dove siete? Redattori di Guide, di rubriche vinicole, blogger, influencer, dove vi siete nascosti, non avete niente da dire? Passate la vita ad assaggiare vino per spiegare qual è quello buono e quello meno buono, quello sano e quello meno sostenibile, quello che sa solo di legno e quello che sa di anfora. Partecipate a fiere, manifestazioni, saloni, percorrete il globo in lungo e largo, incontrate produttori dalla Danimarca alla Tasmania e poi fuggite di fronte a un Checco Grossi che insinua l’incompetenza di tutti gli enologi e di tutti i sommelier?

Sigfrido Ranucci

Sono sconcertato: di fronte a Sigfrido che evoca il crepuscolo degli dei, sono sparite le valchirie! Quando il fastidioso polverone creato da Report si è posato di nuovo sul terreno, mi sarei aspettato una presa di posizione meno dispersiva, una reazione forte e decisa, una dichiarazione unanime di orgoglio professionale, un atto di presenza da parte dell’esercito di colleghi degustatori.

Di quelli delle Guide Vini prima di tutto, delle riviste di vino, dei blogger, degli influencer, di una categoria che è sotto discussione anch’essa, ma che compie uno sforzo sovrumano anno dopo anno proprio per smascherare i “piccoli chimici”, per spiegare al mondo quali sono i vini “buoni” e quali sono quelli comuni. Perché tutto sommato un fondo di verità in quello che dice Sigfrido c’è, solo che questa verità è gestita da Report più o meno come potrebbe un igienizzatore di bagni (con tutto il rispetto) spiegare lo spostamento verso il blu delle Galassie di Seyfert. Anzi peggio.

I precedenti

Il fatto è che Report non è nuovo a inchieste impostate più sul sensazionalismo che sulla pubblica utilità.

Già il 24 settembre 2004 era uscito, a firma di Bernardo Iovene, il servizio “In vino Veritas” che utilizzando le stesse tecniche scandalistiche aveva preso di mira i soliti argomenti: “le frodi, i contributi di cui usufruisce il settore – ogni anno viene dichiarata la calamità naturale – i pesticidi usati nelle vigne e le biotecnologie. E poi, esiste l’industria del vino? Risponderanno i produttori del Tavernello, Zonin, Antinori e produttori di tutta Italia. E ancora, enologi e guide hanno contribuito ai prezzi folli delle bottiglie di vino? Rispondono Riccardo Cotarella e i giornalisti delle 5 guide dei vini d’Italia più vendute, Gambero Rosso, Veronelli, Associazione Italiana Sommelier e l’Espresso (parla di 5 Guide e ne cita solo 4 ndr). Infine, il vino fa veramente bene?”.

Francesco Grossi

Una serie di interrogativi in formato gossip da fare invidia a DiPiù o a EvaTremila, se non addirittura ai fogli scandalistici tipo ABC degli anni ’60. L’inchiesta aveva fatto imbestialire personaggi come Fabio Rizzari ed Ernesto Gentili che di tutto si possono accusare tranne che del non essere di un rigore paranoico nel giudizio dei vini. Sono passati venti anni, eppure siamo sempre allo stesso punto. Peccato per Bernardo Iovene perché il suo operato getta grosse ombre di dubbio su altri suoi lavori come quello del Cioccolato Amaro  che sembrava un’ottima inchiesta sul cioccolato, su Rain Forest e su FairTrade.

Francesco Grossi e il MRC

Sigfrido esordisce subito con un argomento stantio: l’impiego del Mosto Rettificato Concentrato o MRC.

Nell’estate 2011 stavo redigendo il testo del nuovo disciplinare della DOC Bolgheri e Bolgheri Sassicaia, quello che poi entrò in vigore nel 2012. Mi trovai a rileggere, insieme al Marchese Nicolò, il testo del 1994: “Le uve destinate alla produzione del vino a denominazione di origine controllata «Bolgheri» Sassicaia devono assicurare al medesimo un titolo alcolometrico volumico naturale complessivo minimo dell’11,5%. È consentito l’arricchimento con mosti provenienti da uve di vigneti iscritti all’albo del «Sassicaia» o con mosto concentrato rettificato”. Ricordo il sorriso del Marchese mentre raccontava: “Allora il clima era diverso, ed era normale che i vini faticassero a raggiungere la gradazione di 11 gradi. Dal 2000 in poi il clima è cambiato: oggi c’è il problema opposto, quello dell’eccesso di gradazione alcolica. Nessuno più si sogna di aggiungere mosti concentrati”.

Mosto concentrato rettificato

Ripenso a questo episodio ascoltando Sigfrido, il faccione illuminato dal sorrisetto sardonico di colui il quale ha capito tutto, mentre intervista “l’esperto di vino”, il terrapiattista Francesco Grossi, autore di “vini naturali”, che si scaglia contro l’uso indiscriminato del mosto concentrato rettificato e inveisce con chi usa la bentonite per deacidificare il vino (un vero esperto!!!).

Sigfrido impiega quasi un quarto del servizio per demonizzare il MCR come se questo fosse il maggiore dei problemi del vino di qualità. E subito un altro colpo di genio: “quando manca la menzione vigna significa che il vino è addolcito(sic!) con il mosto concentrato” tuona il reporter. Cose da pazzi! Trascurando il fatto che in tutto il resto d’Europa si usa lo zucchero raffinato, o meglio: lo si usava, perché con il cambiamento climatico, nell’era in cui si producono ottimi spumanti in Inghilterra e vini decenti in Danimarca, la necessità di questa pratica è relegata casomai alla produzione di vini da tetrapack di qualità che definire ordinaria è un complimento.

Ma pensate cosa sarebbe successo se il Checco Grossi di cui sopra, produttore di vini naturali (ma ricavati da uve Incrocio Manzoni 13.0.25 ibrido tra autoctoni e internazionali) invece di occuparsi di scie chimiche e di merlot rosati frizzanti, si fosse addentrato nella fisica. Che taglio avrebbe preso il servizio se avesse spiegato a Sigfrido a cosa servono i filtri tangenziali? Oppure che in tempi di cambiamenti climatici il mostro concentrato non serve a niente e casomai ci sarebbe bisogno dell’osmosi inversa. Sigfrido avrebbe fatto salti di gioia aggiungendo al “piccolo chimico” anche la figura del “piccolo fisico”. O forse avrebbe taciuto per non inimicarsi grossi produttori industriali di vini senza disciplinare, ma prodighi di costose pubblicità e jingle di Paolo Belli sulla rete?

Ritano Baragli, presidente Cantina Colli Fiorentini

Trascurando l’ignoranza abissale in materia di enologia e di viticoltura dei redattori di Report, e ignorando l’”esperto di vino” che non riesce a produrre vini bianchi o rossi fermi, ma solo vino frizzante e vino rosso passito, altre considerazioni piuttosto sconcertanti emergono dall’inchiesta e dalle reazioni che ne sono seguite.

Giornalismo e professionalità

Cominciamo proprio dalla preparazione del giornalista generalista. In Toscana ci siamo resi conto tra i primi di questo problema e con ASET associazione dei giornalisti enogastronomici toscani abbiamo organizzato vari corsi di aggiornamento professionale in collaborazione con l’Ordine Nazionale, con tanto di crediti validi per la formazione obbligatoria, realizzati al fine di elevare le conoscenze sul tema vino tra i colleghi degli altri settori. Tutto ciò proprio in considerazione del fatto che l’argomento vino è uno dei più complessi da trattare, e che parlando di vino è facile incorrere in errori madornali. Per rendersene conto basta guardare il servizio di Report. Il lavoro da fare è ancora ingente.

Altra considerazione: la generazione Z sta prendendo le distanze dai vini troppo alcolici. Il successo del prosecco e dei vini da mixer ne è un segnale significativo. Le lobby dell’analcolico pressano per introdurre leggi sempre più penalizzanti per il consumo di alcol. I paesi musulmani richiedono quantitativi sempre maggiori di vini dealcolati.

Il comparto del vino (alcolico) costituisce un settore molto importante per la nostra economia e per la quantità di posti di lavoro che genera. Per questo motivo le tendenze verso il meno alcol devono essere tenute in considerazione per preservare questi posti di lavoro.

Altro che Mosto Concentrato Rettificato, altro che uva da tavola usata per far vino! Sigfrido sbaglia oltretutto obbiettivo: perché si rivolge ai produttori di vino anziché alla repressione frodi? Un’occasione persa, tempo buttato via invece di avviare una discussione molto più importante come quella sul vino dealcolato, con tanto di problematiche di disciplinare e di etichettatura.

Le reazioni

In verità ci sono state reazioni al servizio di Report: alcune indignate, alcune impulsive, altre più meditate o anche al limite dell’imbarazzo. Si è accusato Report di aver fatto “di tutta l’erba un fascio”, ma se fate attenzione, il settore vino è proprio un gran fascio: nel vino coabitano centinaia di anime diverse, produttori di tutte le dimensioni possibili e immaginabili, produttori naturali accanto a produttori industriali, produttori di vini da garage a vini di grande tiratura, anforisti e barricaderi, ma soprattutto di vini di qualità e di vini ordinari.

O per semplificare al massimo: tra vini buoni e vini cattivi. Spesso gli organismi che rappresentano queste diversità sono gli stessi, sia in campo pubblico che in campo imprenditoriale. Quando si parla di “Prodotto Italia” si parla di tutti i produttori, piccoli e grandi, artigiani e industriali. Di quelli che “camminano le vigne” e di quelli che le vigne le vedono solo dalla finestra degli uffici.

Succede che un personaggio di eccellenza sia anche al vertice di un’organizzazione di categoria e se gli si chiede se lui utilizza tecniche giudicate invasive, la risposta è ovviamente “no! Noi no!” con un sorriso dietro al quale si legge “noi no perché guardiamo alla qualità, ma forse qualcuno dei miei associati potrebbe farlo”, anche perché, ricordiamocelo, si parla di tecniche del tutto legali.

I chips di rovere

Un esempio per tutti: i chips di rovere. Un argomento che non è fine a se stesso, ma che apre la discussione su cosa è un vino di qualità e un vino ordinario. Ho conosciuto i chips e il loro inventore grazie ad Alain Brumont, produttore di Madiran, nel Sud-Ovest della Francia, dove si coltiva il Tannat, uva piena di tannino che necessita un grosso intervento del legno per civilizzarsi.

Chips di rovere

I primi esemplari di chips da vino furono sperimentati nel 1996 ad Aire-sur-l’Adour, ma il loro uso è stato autorizzato dall’Europa solo nel 2006. I francesi ne hanno studiato l’utilizzo: “I chips di rovere utilizzati con giudizio consentono la produzione di vini di buona qualità senza che si notino differenze significative tra i vini in botte e i vini con l’aggiunta di chips di rovere.

Questa conclusione è il risultato delle sperimentazioni realizzate dalla stazione regionale Midi Pirenei del Centro Tecnico Interprofessionale della Vite e del Vino (Itv France) e presentate il 31 agosto 2006 nel corso di una sessione tecnica dedicata all’utilizzo dei chips di rovere in enologia”. (Da Vitisphere).

Perché i chips e non la barrique? Per un semplice motivo di costo. Una botte nuova costava allora in media 500 euro tasse escluse, che rappresentano, contando l’ammortamento in tre anni, un costo di 0,66 euro tasse incluse a bottiglia. Il cippato, utilizzato a 500 grammi per ettolitro ad un prezzo medio di 10 euro iva inclusa al chilo, rappresenta un costo di 0,045 euro iva inclusa a bottiglia, quindi 15 volte più economico della barrique. L’uso è attualmente assolutamente lecito e non ha controindicazioni diverse da quelle dell’uso della barrique.

L’unica obiezione di Sigfrido accettabile è che i risultati in termini di qualità del vino non sono gli stessi, ma ad oggi non è previsto l’obbligo di dichiararne l’uso in etichetta, anche se con le nuove leggi le cose stanno per cambiare. Giusto quindi pretendere una maggiore chiarezza dalle etichette, ma da questo a far credere che tutti i vini siano affinati con i chips ce ne corre! Tutto quanto detto per i chips, si può ripetere per molte altre pratiche enologiche che Report ha messo in discussione.

Peronospora

Diciamo anche giustamente, ma il problema è che Report ha combinato un grande pasticcio confondendo pratiche lecite e pratiche illegali, pratiche per fare un vino di qualità con pratiche per produrre un vino corrente, inducendo il povero spettatore a credere che l’illecito o l’intervento invasivo sia dovunque, che anche grandi nomi e grandi produttori siano dei comuni mestatori. Per le pratiche illegali avrebbe dovuto condurre una sua denuncia a parte coinvolgendo la Repressione Frodi e non il settore produttivo del vino che opera secondo legge in maniera irreprensibile.

Avrebbe dovuto affrontare la materia del riconoscimento del prodotto di qualità in maniera globale e senza quell’insinuazione del terrapiattista Grossi sulla categoria degli enologi e dei sommelier che non sarebbero in grado di distinguere un vino buono (il suo, ovviamente) da un vino scadente (il Sassicaia, magari). Invece il buon Sigfrido ha cucinato un gran minestrone disgustosamente fazioso contando di provocare il crepuscolo degli dei.

La questione “etichetta”

Non è poi così difficile spiegare al pubblico che in ogni settore produttivo esistono differenze di qualità. Un maglioncino acquistato sui banchetti del mercato rionale sarà diverso dal cachemire di Brunello Cucinelli, e così un formaggino fuso del supermercato non avrà le stesse caratteristiche, né lo stesso prezzo, di un mezzano di alpeggio.

In ogni settore produttivo, e in primis nell’agroalimentare, le differenze di qualità esistono e sono molto sensibili. Come fare a distinguerle? Report se la prende con le indicazioni in etichetta, e lo fa nella maniera più confusa possibile. Non si accorge che dietro le etichette ci sarebbero ben altre inchieste e indignazioni da portare avanti. Il peso delle lobbies industriali, ad esempio, che si fanno beffe dei sorrisetti di Sigfrido, quelle che hanno inventato il famoso semaforo rosso del Nutri-Score adottato in Francia e Inghilterra.

L’etichetta demonizza ad esempio l’olio extravergine di oliva con il semaforo rosso, come grasso puro e perciò nocivo, senza tenere in conto le proprietà benefiche che lo stesso ha in un uso consapevole con una giusta dose giornaliera. Seguendo il Nutri-Score si deduce che un olio di semi estratto con i solventi è comparabile salutisticamente con un olio extravergine di oliva.

Soddisfatto Sigfrido? Non ammetti che occorra andare ben oltre l’etichetta? In realtà la vera soluzione consiste nel formare e informare il consumatore, è necessaria una comunicazione che sia rigorosa ma anche capillare, sostenuta da un interesse pubblico e non solo più dall’iniziativa di gruppi volontari.

Vino e comunicazione

Torniamo al vino: il mondo delle Guide e dei critici, dei giornalisti, ma anche dei nuovi comunicatori, i blogger e gli influencer, è composto da centinaia di persone che durante tutto l’anno non si occupano che della valutazione del vino, che assaggiano in ogni occasione possibile, che sono presenti a tutte le fiere e le manifestazioni vinicole, che visitano produttori, cantine e vigneti, che cercano di capire la loro impostazione.

Daniele Cernilli Guida Essenziale Doctor Wine nella sua carriera ha assaggiato circa 150.000 vini, il Gambero Rosso ha una squadra di 70 degustatori che assaggiano 50mila campioni ogni anno, Vinibuoni d’Italia del Touring Club si affida a decine di esperti coordinati in commissioni regionali, la Guida Oro I Vini di Veronelli ha selezionato 15.786 vini di 1.944 produttori, Slow Wine racconta più di 2000 storie di produttori che aderiscono al proprio manifesto per il vino buono, pulito e giusto (con buona pace del terrapiattista Checco), poi ci sono le Guide Vitae dell’AIS, Bibenda della FIS, quelle dell’ONAV, di GoWine, del Corriere della Sera, dell’Espresso, Wine Surf e altre ancora.

Ci sono decine di testate nazionali e internazionali che giudicano i vini di tutto il mondo: da Decanter a Revue du Vin de France, da Wine Spectator a Wine Advocate, da Vinous a Suckling, da Vinum a Falstaff e continua, continua. Poi c’è l’esercito dei blogger e degli influencer: solo nel mio archivio ho più di 400 indirizzi di personaggi che scrivono regolarmente di vino e di cibo.

Un vero esercito di persone che assaggiano e giudicano in continuazione e che, per questo, conoscono il vino molto di più di quanto ironizzato dal Checco vinificatore naturale. Si può obbiettare che questi giudizi hanno un margine di soggettività, che non tutti sono disinteressati al 100%, che alcuni sono più attendibili di altri, o che a volte sono discordanti. Ma il numero dei dati disponibili è tale da assicurare al consumatore, anche a quello solo occasionalmente interessato, un criterio decentemente approfondito per riuscire a capire se un vino ha la qualità desiderata, se corrisponde alla denominazione alla quale appartiene e se vale il prezzo di acquisto.

Chi non ha una preparazione specifica, ma vuole bere bene, ha a disposizione tutti gli strumenti del caso per farlo, addirittura scegliendo il critico che più si avvicina al suo gusto. Questo vale per il vino, ma anche per l’olio, per il cibo, per la cucina, per il ristorante, per la pizzeria. Chi invece è attento solo ai prezzi, per incuria, si badi bene, e non per necessità perché la qualità si trova anche in basso, allora si aspetti di trovarsi di fronte a prodotti aggiustati partendo da materia prima di minor valore, anche se perfettamente legale. Come legale è l’acido ortofosforico aggiunto alla più famosa bevanda analcolica del mondo.

Non sarebbe male, in conclusione, se il settore dell’informazione agroalimentare, se questo mondo di critici che fanno il loro lavoro con convinzione e con passione, critici spesso a loro volta criticati più per una certa forma di gelosia repressa che per motivi sostanziali, si riunisse permanentemente in un Sindacato Degustatori, in un’entità non solo privata, ma riconosciuta anche dalla pubblica utilità, un’entità che fosse in grado di opporsi agli attacchi sempre più frequenti delle lobbies analcoliche o dei reporter scandalistici o incompetenti che dir si voglia. Il consumo consapevole ne avrebbe un grande giovamento.

Paolo Valdastri