A settimana delle Anteprime toscane appena trascorsa, guardandosi indietro non si può fare a meno i provare un po’ di sgomento. Assaggiare dagli 80 ai 100 vini al giorno in 6 sedi differenti in 4 città diverse, con relativo aggravio di trasferimenti, ecc., è certo impegno utile ma gravoso per il degustatore

Chi Vi scrive invidia coloro che con implacabile urgenza pubblicano subito i propri giudizi sotto forma di liste di etichette imperdibili. E’ pur vero che, nella fatica degli assaggi, a più forte ragione i vini che spiccano meritano menzione e, forse, lode. Ma personalmente, distillare dal tourbillon dei bicchieri un senso, un profilo interpretativo, una parvenza di sintesi, richiede tempo, ponderata riflessione, più di un ripensamento. Tirare le somme è quanto si ripromette questa serie di articoli, che affronteranno di volta in volta le risultanze delle varie sessioni di degustazione.

E in ordine rigorosamente cronologico iniziamo dal pout pourri delle “altre” denominazioni toscane, recentemente aggiuntesi nel giusto tentativo di sfruttare la presenza della stampa internazionale di settore. Territori differenziati, al presente di carature e specificità stilistiche difficilmente sincronizzabili, ma tutti degni di una conoscenza più approfondita e, in sede di degustazione, di un’attenzione più puntuale.

Il che era oggettivamente raggiungibile con difficoltà nelle condizioni dell’Anteprima: una “lenzuolata” di bottiglie tutte confinate nella stessa stanza, affastellate in confusione su tavoli un po’ ristretti a dispetto della gentilezza e disponibilità degli addetti dei vari consorzi, indisponibilità del servizio dei sommelier al tavolo (e quindi impossibilità di un assaggio rilassato), e talvolta addirittura degli indispensabili sputavino!

Mi si perdoni il tono polemico, ma per quanto la visibilità nell’ambito di un evento di respiro internazionale costituisca, per queste denominazioni, un netto progresso rispetto al limbo mediatico di poco prima, presso il pur accogliente e logisticamente comodissimo Hotel Michelangelo pareva di riscontrare un certo scadimento rispetto al glamour del centralissimo Grand Hotel Baglioni del 2015, e agli spazi della Fortezza da Basso dell’anno ancora precedente. Sarà un caso che i territori di Bolgheri e della Val di Cornia abbiano già abbandonato la comitiva?

Ed è un peccato: se le varie denominazioni hanno superato le diatribe di campanile con i buoni uffici della Regione, e si sono proposte congiuntamente unendo le rispettive risorse, forse vale la pena di un piccolo ulteriore sforzo per garantire le condizioni di un approfondimento delle rispettive qualità, che ci sono, e meritano di essere conosciute e comunicate.

E veniamo agli assaggi. Il degustatore appassionato si trovava nella fattispecie in una situazione simile a quella di un bambino in un negozio di dolciumi: la voglia di provare tutto e la pratica impossibilità di farlo. Due approcci erano possibili: un approfondimento più sinottico di alcune denominazioni (e in piedi prendendo appunti su un taccuino di fronte a un banco affollato non era facile), o una panoramica a volo di uccello cercando di cogliere qualche tendenza distintiva in ogni comparto di assaggi. Chi Vi scrive ha optato per la seconda possibilità: ecco i risultati.

 

Morellino di Scansano: in degustazione la bagnatissima annata 2014, vera forca caudina per la denominazione, giudicata anche peggiore della vituperata 2002; più alcune Riserve di millesimi sparsi, tutti tendenzialmente più o meno torridi. Lode pertanto ai produttori che hanno sfornato vini ben disegnati, di misurata estrazione tannica (meglio evitar danni, la maturità dei tannini non era assicurata); il profilo gustativo era sottile ma aggraziato, la beva scorrevole; il corredo aromatico sostituiva in qualche modo l’accattivante immediatezza di frutto del Morellino con note più erbacee, che suggerivano fortunatamente più fragranza che mancanza di maturità. Con qualcosa in più, da questo punto di vista, le uscite di Poggio Bestiale e San Felo.

Per converso, la piccola annata la si percepiva al palato, con persistenza gustativa in generale inevitabilmente limitata al minimo sindacale. Le Riserve sono molto più gettonate all’estero che nel Bel Paese, dove il consumatore medio in cerca di un Sangiovese importante si rivolge ad altri lidi: tra i pochi assaggi effettuati, un poco di voglia di strafare in termini di sovramaturazione e di vini già un poco in fase discendente: gradevole eccezione il 2012 di Poggio Maestrino, mentre il Calestaia 2005 di Roccapesta, residuato dalla degustazione guidata proposta alla stampa, esibiva discreta compiutezza tra le varie componenti al palato ma aveva già superato il suo momento migliore.

 

Pitigliano e Sovana: due denominazioni separate ma sorelle, che si spartiscono la produzione di bianchi e rossi, rispettivamente. Territorio potenziale mirabile per i suoli di matrice vulcanica, ma assaggi di difficile interpretazione. Come ha specificato il presidente del Consorzio Edoardo Ventimiglia, una percentuale consistente della produzione viene venduta sfusa, e anche nell’imbottigliato giganteggia la massa critica dei numeri della Cantina Sociale di Pitigliano, il cui Sovana Sangiovese Vignamurata 2014 (!) si raccontava più con una dolcezza (leggermente innaturale per l’annata) un po’ tecnica, che non con lo slancio del vitigno. Dando cioè per scontato che il citato “disastro” maremmano del millesimo 2014 ha inciso in generale anche qui, meglio allora il Rosso Superiore 2014 Ombra Blu di Sassotondo, abbastanza sapido ma limitato dall’annata ad essere piacevolmente scorrevole e beverino.

Lo stesso dicasi per il bianco Isolina, ben bilanciato e anche piuttosto morbido ma frenato nell’allungo. Piacione ma ben fatto l’Oroluna, già 2015, de La Roccaccia, semplice su un frutto maturo agrumato di buona persistenza. Infine, citazione d’obbligo per il Bianco di Pitigliano 2006 ancora di Sassotondo, di bella personalità aromatica con alcune note ancora fragranti di erbe officinali e camomilla, e quel minimo di evoluzione ossidativa che piuttosto che denotare stanchezza, regalava complessità. A dimostrazione che in terra etrusca ci sono ancora da esplorare spazi che vanno ben al di là del consumo immediato dei turisti estivi.

Colline Lucchesi (ma non Montecarlo): qui l’originale commistione tra vitigni autoctoni tradizionali toscani e varietà francesi importate, anche inconsuete (es. Semillon) è meno accentuata. I vigneti sono sparsi a macchia di leopardo, in posizioni quanto mai differenziate dal punto di vista pedoclimatico, non fosse altro rispettivamente per la vicinanza all’Appennino o per l’influenza delle brezze fresche che spirano dalla Garfagnana. In compenso, trattasi di un comprensorio coeso nel perseguire con coerenza i dettami dell’agricoltura biodinamica, con numerose aziende (non tutte) che fanno gruppo, scambiandosi anche esperienze e reciproci incoraggiamenti.

A dispetto del successo commerciale dei vini bianchi nei ristoranti di pesce della Versilia, il territorio si è recentemente fatto conoscere per i suoi rossi: da monovitigno o da assemblaggi in cui il Sangiovese può trovare la quadra di un’espressività non snaturata dalla coabitazione con i vitigni internazionali. Difficile tracciare pertanto delle linee interpretative esaurienti, se non l’impressione che i vini biodinamici in gioventù soffrano di qualche incertezza olfattiva: di volta in volta interpretata come fase di riduzione dell’evoluzione aromatica o, negli esempi più eclatanti, come difetto in quanto tale. Non era questo il caso del fuoriclasse Tenuta di Valgiano 2013: se ancora chiuso al naso, il palato ha impressionato per volume, equilibrio, presa tannica, slancio acido, e gli si avalla volentieri la cambiale del tempo di cui avrà bisogno per dispiegarsi.

Meno ambiziosi gli altri assaggi, tutti ancora annata 2013: piacevolmente ruspante (il tannino del Sangiovese!) e anche sapido il Picchio Rosso di Colle di Bordocheo; per converso quasi eccessivo il Merlot Casa e Chiesa di Tenuta Lenzini nella sua ricerca di una succosità piaciona; ben rifinito il Villa Sardini di Pieve Santo Stefano, anche di buona corrispondenza naso-bocca; mentre il Cabernet Franc Lippo della stessa azienda, ha l’acidità per assestarsi, ma al momento è ancora veramente troppo in debito di bottiglia.

Riccardo Margheri