Vermut, antiche alchimie e nuove emozioni

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Per descrivere le sensazioni che ho provato recentemente nell’assaggiare un sorso di Vermut devo ricercarle nei ricordi della mia infanzia, in quei profumi che, nei pomeriggi invernali, invadevano e si erano impadroniti del salotto buono di una mia zia, allora già avanti con l’età e mai sposata, che probabilmente cercava un po’ di conforto nei “bicchierini” di questo famoso nettare: insieme di vino, zucchero, alcol etilico, spezie e decine di erbe aromatiche.

Un mix di arte, suggestioni, sensibilità; ingredienti ben miscelati che portano ad una sinfonia armonica tra olfatto e palato.

Ma cos’è il Vermut, dove è nato, quale la sua storia,
a cosa deve il suo nome e come si scrive?

Tecnicamente è un vino aromatizzato, classificato come vino liquoroso per il suo titolo alcolometrico volumico che deve essere superiore al 16%.

La sua composizione deve prevedere non meno del 75% di vino base (rosso o bianco a seconda se desideriamo ottenere una colorazione diversa) al quale aggiungere alcol tanto quanto serve per conseguire il titolo alcolico prestabilito e almeno il 14% di zucchero nella versione dolce. Si riduce al 4% nella versione secco o dry.

Successivamente, in riferimento alle varie tipologie vengono addizionate erbe aromatiche: spezie, scorze, fiori e l’assenzio. Il tutto in proporzioni variabili a seconda delle suggestioni aromatiche che l’azienda produttrice vuole imprimere al proprio prodotto.

Già, l’assenzio (Artemisia absinthium L.) che identifica la “sua” origine (e nome) dalla pianta dell’artemisia maggiore da sempre conosciuta come “la Fata Verde in grado di scacciare ogni male”.

E i vini? Per tradizione i vini del territorio: Moscato, Gavi, Timorasso per la tipologia in bianco, Barbera, Nebbiolo ed altri vini locali per la tipologia in rosso.

La liquoreria dove lavorava Carpano. Stampa d’epoca

Antiche alchimie nate in una liquoreria
di piazza Castello a Torino

Tra il 1750 e il 1800, nella liquoreria Marendazzo, Antonio Benedetto Carpano, non più garzone di bottega ma responsabile della produzione, a seconda delle richieste proponeva alla clientela liquori, liquorini, digestivi ed altro, traendo ispirazione dai vini conciati dell’epoca greca e romana.

Nel 1786 riuscì con le erbe a disposizione nella liquoreria (sambuco, genziana, ginepro, maggiorana, arancio amaro, menta, cannella, noce moscata, zafferano, china, vaniglia e altri ancora) a miscelarle con vino bianco moscato aggiungendo inoltre assenzio e caramello: era nato il Vermut.

Carpano utilizzò l’assenzio non solo per quella nota amaricante ma anche per dare il nome alla sua “invenzione” e il caramello per dare un tocco di colore allettante alla “scoperta”.

Fu un vero successo tant’è che il Principe Vittorio Amedeo III ne rimase così colpito dal gusto che decise di bloccare la produzione di rosolio allora diffusissimo come “aperitivo nelle happy hour sabaude” sostituendolo con il Vermut.

Vari nomi nel tempo (fonte spagnola)

Da “assenzio” a Vermut il passo fu breve. O meglio dal nome tedesco che identifica la pianta dell’Artemisia maggiore, Wermut, al termine pronunciato con cadenza piemontese, Vèrmut, determinò quella che oggi chiameremmo idea pubblicitaria vincente”.

Ma come si scrive: Wermut, Vermouth
o semplicemente Vermut con o senza accento?

Vermut è la parola corretta in italiano; non francese né inglese e va dunque difesa nella sua grafia italiana. O, se vogliamo esser più precisi, piemontese.

Ho già riferito la sua origine tedesca legata alla traduzione della parola assenzio che Carpano fece sua con la grafia piemontese con tanto di accento grave sulla è (vèrmut) per una corretta pronuncia. Poi arrivarono i francesi aggiungendo da prima la e poi la finale e questo garbò molto agli Inglesi che, entusiasti, lo diffusero nel mondo con questa grafia:  vermouth.

Ma per noi è e deve restare vermut. Difendiamo il made in Italy!

Dopo Carpano e il suo “successivo trionfante” Punt e Mes, un punto di vermut e mezzo di china, furono l’imprenditori, Alessandro Martini e Luigi Rossi, anch’essi piemontesi,  a creareun secolo dopo il loro primo Vermut, il celeberrimo Martini Rossi la cui ricetta è attuale oggi come allora.

Vecchia etichetta della Martini e Rossi

Facendo un balzo ai giorni nostri, nel 2017, per tutelare il Vermut di Torino Igp , è stato predisposto ed approvato un disciplinare che prevede l’utilizzo di vino italiano al 100%, con uso di artemisie esclusivamente piemontesi.

E dell’arte nata intorno a questo “vino liquoroso”
ne vogliamo parlare?

Basta ricordare il successo pubblicitario creativo di Armando Testa che ha contribuito a rendere famoso nel tempo “Re Carpano” e “Punt e Mes” e quello più ricercato di Marcello Dudovich (al quale mi lega una parentela di famiglia) “cartellonista ufficiale della Martini e Rossi”.

Arte di Armando Testa. Punt e Mes

Vermut, antiche alchimie ma anche “nuove emozioni”

Anche oggi riesce ad attirare la curiosità delle nuove generazioni, data la bassa gradazione alcolica e la sua ampia versatilità.

Infatti lo possiamo gustare liscio con cubetti di ghiaccio per gli aperitivi oppure declinato nei cocktail come nei famosissimi Negroni, Manhattan e Martini dry e perché no, così com’è, a temperatura ambiente, senza altro aggiungere degustandolo nella sua unica essenza. Capolavoro d’arte enoica.

Momenti di svago che nello stesso tempo risvegliano sensazioni multisensoriali tese a scoprire e degustare eccellenze del territorio, nelle quali il vino, erbe aromatiche e fantasia mescolano sapienze enoiche e alchimistiche.

Percorsi inebrianti e sentori affascinanti: ricordi velati da una “dolce” malinconia nei ricordi di quel salotto pervaso dal profumo del Vermut. Chapeau!

Elisa Paolini