Piccola discussione sul vino analcolico
Dal primo salone internazionale del vino, Vinexpo Parigi tenutosi a metà febbraio, arrivano alcune indicazioni sul futuro del vino. La più preoccupante riguarda l’evoluzione dei vini NoLo ovvero dei vini a basso o nullo contenuto alcolico. I dati della Fiera di Parigi confermano quanto sta circolando sulla rete in questi giorni al riguardo delle tendenze di consumo sui mercati evoluti e da parte delle nuove generazioni, Millennial e Generazione Z.
Secondo una ricerca Slowine/Dynata 2023 il 44% dei consumatori NoLo ha un’età compresa tra 18 e 25 anni, ma l’aspetto più preoccupante (almeno per noi boomer) è che la tendenza si sta diffondendo ai ristoranti stellati e sta viaggiando in tutti i paesi con Francia, Olanda, Norvegia, Stati Uniti e Olanda in testa alla classifica dei vini a bassa gradazione alcolica.
Le normative che regolano il settore sono ancora molto disomogenee o addirittura assenti. Nel Regno Unito è autorizzata la de-alcolizzazione del vino sfuso, in Australia ci sono finanziamenti per incentivare il miglioramento della qualità di questi prodotti. In Italia la pratica non è autorizzata se non per la diminuzione di pochi gradi, e si assiste al fenomeno commerciale di vino italiano sfuso importato a basso prezzo da aziende statunitensi, in seguito de-alcolizzato e messo in commercio con grossi utili per i rivenditori e marchi finali. Nel 2022 nel mondo il mercato NoLo ha superato gli 11 miliardi di dollari mentre negli Stati Uniti tra agosto 2021 e agosto 2022 le vendite di bevande analcoliche sono state pari a 395 milioni di dollari con un incremento annuale del 20,6%.
Mentre Sigfrido, con il suo Report, si occupa maldestramente di accomunare le procedure per produrre i vini da strapazzo della GDO a quelle per produrre i vini di qualità, creando una confusione mentale incredibile nei poveri consumatori, il mondo del vino va verso direzioni imprevedibili.
A Vinexpo abbiamo assistito ad un +50% nella presenza di vini analcolici, affiancati dagli hard seltzer low alcohol, dagli RTD (ready to drink) NoLo, e dai liquori senz’alcol.
Tra questi espositori c’è anche la italiana Bottega con i suoi Zero White e Rosé, classificati per ora come “Bevanda Analcolica” prodotta a partire da mosto d’uva, filtrato e imbottigliato, aggiunto di anidride carbonica, acqua, acido citrico correttore di acidità, conservanti E220 e E242. Ecco cosa rischia Sigfrido: altro che aggiunta di MCR, altro che lieviti selezionati. La sua Bonarda commercializzata in GDO diventa un vino di lusso a confronto con questi prodotti che hanno una grande probabilità di venir chiamati “vini” in un prossimo futuro.
Per fortuna non siamo ancora arrivati al momento cruciale, per ora in Italia la legge non consente di chiamare vino lo Zero White e i suoi simili. In altri paesi dell’Europa e del mondo, invece, questo è possibile.
Vino o non vino?
L’aspetto economico relativo a questo settore non è indifferente. Oltre ai giovani delle nuove generazioni esiste una richiesta di dimensioni molto consistenti nei Paesi islamici. Dieci anni fa ero al SOL&Agrifood del Vinitaly con un’azienda olearia di Bibbona. Si presentò un cliente iraniano che importava grossi quantitativi di olio evo e mi disse che era interessato a incontrare produttori di vini dealcolizzati e le quantità di prodotto richieste erano impressionanti.
Non fui in grado di trovare nessun produttore italiano di questo tipo, mentre in Inghilterra avevo trovato numerose etichette nei supermercati e nelle enoteche. Da allora ho cominciato a chiedermi se non fosse giusto percorrere questa strada, anche a dispetto dei puristi del vino, ma a favore di un comparto economico da diversi milioni di euro.
In Italia, infatti, il dubbio amletico è: vino o non vino? La base fondamentale è sempre che si parta dalla materia prima UVA e quindi dalla sua produzione agricola. Ma se vino fosse, come si produrrebbe, e quale sarebbe la sua qualità, la sua piacevolezza, quali sarebbero le sue caratteristiche organolettiche? Prima di avviare una qualsiasi discussione, è utile capire prima cos’è e come si produce un vino dealcolizzato. A tale riguardo è interessante il lavoro presentato da InfoWine per Vinidea curato dalla Prof. Tiziana Lisanti dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che illustra il percorso di riduzione dell’alcol e alla fine si chiede se ne vale la pena.
“Correzioni” e cambiamenti climatici
Ho vissuto le strategie per la riduzione di qualche grado alcolico all’inizio del millennio a Bolgheri. Gli effetti del cambiamento climatico cominciavano a manifestarsi in vini che superavano con la massima facilità i 15°. I provvedimenti più immediati si affidavano a strategie pre-fermentative per ridurre il contenuto in zucchero del mosto o a strategie fermentative con lieviti atti a ridurre la resa di trasformazione zuccheri-etanolo.
Ma per mantenere intatta la qualità dei prodotti si cominciò a studiare a fondo le possibili strategie viticole in campo come l’aumento della resa in uva, la potatura, la riduzione dell’area fogliare, l’ombreggiamento, i trattamenti antitraspiranti, l’irrigazione, mentre si cercava di stare alla larga dalle strategie post fermentative come la distillazione sotto vuoto o le tecniche a membrana.
Nello stesso periodo nella Napa Valley si sentiva parlare spesso delle tecniche di distillazione sotto vuoto con le SCC Spinning Cone Column, i famigerati coni rotanti che consentivano di ricombinare la frazione aromatica al vino dearomatizzato e dealcolizzato. Nelle zone più calde del Vecchio Continente gli apparecchi per l’osmosi inversa o per la “evaporative perstraction” andavano avanti e indietro per le cantine.
Ma, ripeto, si trattava sempre di correzione del grado alcolico entro un limite massimo del 20% del grado alcolico iniziale e, come vedremo, questo limite ha un forte significato in termini di variazione di caratteristiche organolettiche. Correzioni sempre in grado di far tuonare Sigfrido allo scandalo, alla manipolazione, al piccolo chimico, anche se in questi casi la responsabilità ricade di più sui piccoli fisici.
Con la dealcolizzazione parziale o totale dei NoLo wines Sigfrido potrebbe montare delle intere serie di fiction sul settore.
Cosa è la dealcolizzazione
parziale o totale dei NoLo wines?
I limiti (ma non sono ancora uguali in tutti i Paesi) sono: per un vino parzialmente dealcolizzato il Grado Alcolico deve essere tra 0,5%v/v e il Minimo ABV (Alcohol by Volume) del disciplinare, mentre un vino è totalmente dealcolizzato quando ha un grado alcolico minore di 0,5%v/v.
A questo punto ci chiediamo (come Sigfrido) quali sono le modificazioni che il vino subisce in termini di qualità sensoriale, ovvero se l’asporto di etanolo comporta anche perdite di composti attivi positivi. L’etanolo esalta le caratteristiche di DOLCE (ovvio) ma anche di AMARO, poi aumenta la viscosità, la densità, il corpo del vino, insomma la sua morbidezza, ma anche la persistenza, mentre la diminuzione accentua l’astringenza e l’acidità.
A livello di aromi il comportamento è ancora più radicale. L’aumento di etanolo agisce solo sulla volatilità di poche molecole odorose e dei sentori erbacei (pirazine), mentre la sua diminuzione riduce drasticamente la maggior parte delle molecole odorose, esteri terpeni, pirazine, alcoli superiori, e maschera gli odori fruttati. La perdita di questi composti è proporzionale al livello di dealcolizzazione, quindi si arriva al 100% nei vini senz’alcol, mentre i parametri chimici, soprattutto i polifenoli, restano quasi immutati.
Il test
L’Università di Napoli, con la Prof. Tiziana Lisanti, ha effettuato un test su due vini (Aglianico), uno più alcolico 15,46% e uno meno alcolico 13,81%, con tre differenti livelli di dealcolizzazione, -2°, -3°, -5°, inteso a capire se i vini così trattati sono percepiti come diversi dal vino base. Per questo ha utilizzato un metodo di estrazione con contattore a membrana a temperatura ambiente e pressione atmosferica, senza frazionamento. I risultati sono stati esaminati in una serie di test triangolari con un panel di 30 giudici non addestrati.
Il risultato ha detto che fino ad un livello di dealcolizzazione pari al 20% del contenuto alcolico iniziale i giudici non hanno rilevato alcuna differenza sensoriale. In pratica anche dall’analisi gas-cromatografica e spettrometria di massa risulta che l’effetto della dealcolizzazione sulle frazioni volatili libera e legata è pressoché nulla entro il limite critico del 20%, mentre al di sopra cominciano a manifestarsi sentori definiti come di “cotto”, aumenta l’astringenza e aumenta la sensibilità agli etilfenoli (come quelli da Brettanomyces). Nel caso del vino più alcolico la giuria ha addirittura preferito il campione dealcolizzato del 2% vol.
Come si supera, invece, la soglia del 20% di dealcolizzazione, si entra in un universo perduto, nel senso che le perdite di sostanze positive stravolgono completamente il profilo gustativo del vino.
Le tecniche di dealcolizzazione hanno fatto passi da gigante negli ultimi anni soprattutto nel preservare la frazione volatile del vino, ma i cambiamenti nel gusto e nel profilo olfattivo sono ancora importanti e soprattutto proporzionali al grado di dealcolizzazione.
Quindi, mentre la dealcolizzazione correttiva può essere in grado addirittura di migliorare, in alcuni casi, la qualità del vino, la dealcolizzazione parziale o totale producono risultati piuttosto disastrosi a livello sensoriale. Ne discende che i vini NoLo presi così come escono dal processo, non sono il massimo della piacevolezza e che quindi per essere accettabili devono essere “preparati” e corretti con vari metodi, praticamente progettati per questo scopo. Gli interventi più importanti sono quelli che riguardano la struttura del vino e la morbidezza dei tannini, per i rossi, l’equilibrio acido per i bianchi.
Ci sono poi altri aspetti fondamentali da tenere sotto controllo: la stabilità microbiologica, la stabilità colloidale e la capacità di conservazione della parte aromatica. Tutti gli interventi necessari fanno parte di un complesso di pratiche enologiche (quelle aborrite da Checco Grossi) in parte già applicabili ai vini “alcolici”, ma solo in parte. Alcune di queste pratiche invece riguardano solo il complesso dei NoLo ed avranno bisogno di un quadro giuridico a parte. Inoltre queste pratiche richiedono processi non sempre vicini alla sostenibilità e quindi ci sarà bisogno di ulteriori ricerche per il perfezionamento di questo aspetto, anche perché la platea alla quale si rivolgono, se escludiamo il settore rigorosamente religioso, è molto sensibile su questo tema.
Vi immaginate la felicità di Sigfrido, con il suo esperto Checco Grossi, nel poter pontificare sulle pratiche abiette necessarie per la produzione di questi “vini” (perché prima o poi si chiameranno così)? Altro che piccoli chimici: potrebbe parlare di stregoneria pura! Peccato però che così facendo si metterà contro tutti i giovani consumatori della Gen Z e forse anche qualche lobby dell’analcolico. In questo caso, Sigfrido, noi consumatori della vecchia guardia saremo tutti con te.
Paolo Valdastri