Storia di un Banco d’Assaggio dal quale abbiamo imparato parte della Vita del Vino

Scriveva Charles Baudelaire, gran bevitore, nella sua celeberrima “L’Ame du Vin” (L’Anima del Vino): “So bene quanta pena, quanto sudore occorra sulla collina in fiamme, sotto il sole cocente, perché io abbia un’anima, e la vita in me scorra”.

Capire quando un vino ha deciso di lasciarci. Capire quando un vino è felice di essere stato liberato dalla sua bottiglia-dimora dove ha soggiornato per anni, anni, anni. Capire i territori, le vinificazioni, i vari passaggi, le vendemmie. Insomma capire il vino guardando, annusando, bevendo.

Tutto questo da un Banco d’Assaggio, dalla condivisione dei gesti, degli sguardi, dalla consapevolezza che si stia giocando una partita speciale dove sul tavolo, nei calici, trovi la diversità territoriale. Si eleva l’orientamento interpretativo, meditato. La capacità di mettere in relazione tra loro vari componenti che determineranno il giudizio finale. Ed allora ecco in sequenza l’andamento stagionale localizzato, i terreni, l’esposizione dei vigneti di riferimento, la loro età e il saper fare dell’Uomo.

Tutto questo da un Banco d’Assaggio del Corriere del Vino dove sette bottiglie contenenti vendemmie al limite del ciclo naturale della propria esistenza hanno permesso un approccio altamente didattico, rivendicandolo, privilegiando gli elementi di riflessione, nozioni simboliche e culturali. E la degustazione analitica “classica” è saltata. I commenti sui vini, assaggiati a più riprese, hanno “spaziato”, rovistando nelle nostre “memorie” gli aspetti della nascita, dell’evoluzione, e della degustazione di vini alcuni ancora “vivi”, altri arrivati vicini al capolinea.

Alla fine è maturata la decisione di non dare voti perché ogni bottiglia, vino, tipologia ha avuto una storia mista a filosofia personale, l’espressione della propria anima.

E quando ho messo all’orecchio il decanter contenente un Brunello del 1980 e ascoltato il suo “bisbiglio” di felicità ritrovata per l’uscita dalla prigione di vetro e pronto “perché il suo caldo petto è per me dolce tomba,meglio che in una fredda cantina là dimoro”, ho provato sensazioni incredibili difficilmente trasferibili, comunicabili. Quei leggeri suoni ti rimangono dentro e diventano “parole vibranti” di vita, perché il vino vive.

Sette bottiglie, sette vini provenienti da regioni diverse, contesti vitivinicoli differenti.

Carpino Azienda Ricchi dei F.lli Stefanoni, Lombardia Monzambano (MN). Merlot 100%, Vendemmia 2002. 13 anni per un vino atto a invecchiamento fino a 10 anni. Ancora ben “vivo” con il suo manto granato, la ricchezza olfattiva e l’equilibrio gustativo. Ancora molto da raccontare.

Dolcetto d’Alba Fontanafredda Piemonte vendemmia 2001. Si è presentato molto chiuso e ha faticato a rilasciare i suoi profumi langaroli. 14 anni ben portati ma ormai al limite della sua sopravvivenza.

Barbera d’Alba Fontanafredda Piemonte vendemmia 2000. Un passo diverso dal Dolcetto. Ancora un vino “vivo”, non più “scattante” ma gradevole ed accettabile in tutte le sue componenti. Anche questa una gradevole sorpresa.

Cuvée prestige Chateau Beauregard-Mirouze, Rouge Corbières 1999, Linguadoca. Lo straniero. Syrah e Grenache. C’è voluto un bel pò a capirlo al naso. Meglio al palato con il grenache scomposto che ha fatto capire l’inizio della decomposizione anche se il colore ha agguantato.

Cabernet Sanct Valentin, Cantine San Michele Appiano, Alto Adige, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, 1999. Ancora nella fase di maturità. Nessun cenno di decadenza nonostante i suoi 16 anni di vita. Colore granato, persistente e compatto nel roteare, rilascio di polialcoli fitti. Stupendo al naso dove i terziari da affinamento ormai ben amalgamati con le altre espressioni dei secondari. Al palato equilibrio tra tutte le componenti con una trama tannica evoluta ed elegante. Bene i ritorni retronasali ricchi di complessità. Lungo, molto lungo. Tanta vita ancora davanti a se.

Castello di Ama, Chianti Classico, Sangiovese 80% e 20% di merlot e malvasia nera. Toscana. Vendemmia 1998 Ce lo aspettavamo così e così è stato. Un “chianti classico nel tempo”, anzi un “chianti senza tempo”. Le componenti del blend tutte ancora ben amalgamate e piacevoli. Ancora qualche anno avanti a se.

Infine lui, il “grande vecchio”, quello del decanter, del bisbiglio, della poesia.

Brunello di Montalcino, Fattoria de Barbi Cinelli Colombini, Toscana, vendemmia 1980 (bottiglia n° D 2580) sangiovese grosso. Quando i vigneti  erano di proprietà della Famiglia Cinelli Colombini e i risultati non sono venuti per caso. Vino diretto, spontaneo, immediato, dalla sua naturalezza espressiva di un territorio, artefice insieme ad altri ad elevare il Brunello nell’Olimpo dei grandi rossi italiani e non solo. Sorpresa e soddisfazione. La prima per aver constatato la non banalità di un vino dopo ben venticinque anni, la seconda per aver stappato un “romanzo”.

Ho iniziato con Baudelaire e finisco sempre con lui ricordando che “Dio, pentito, creò il sonno, le sue fole.

L’Uomo vi aggiunse il vino, sacro figlio del Sole”.

Alla fine un voto è uscito all’unanimità: Voto Quando un Banco diviene Lezione al Banco.


Urano Cupisti