È impossibile separare il sapere dalla cucina, impossibile a maggior ragione per Siracusa, per secoli una delle più importanti città del periodo classico

È impossibile separare il sapere dalla cucina, impossibile a maggior ragione per Siracusa, per secoli una delle più importanti città del periodo classico. La sua cucina, di certo, è la più antica d’Europa e pare rispecchiarne l’anima lussureggiante, ricca come è di contaminazioni culturali e apparenti contraddizioni dal fascino inimitabile. Un po’ a riflettere quel dedalo di vie che si snoda sull’isola di Ortigia, tra i colori delle bancarelle ricche di primizie, i profumi del mare e della campagna, e il vociare dei venditori ambulanti. Aromi forti, cui la gente locale è adusa; aromi che svelano una genesi, tradiscono il crocevia di dominazioni cui l’Isola ha assistito.

Proprio a ridosso di quel brulicare continuo, il Grand Hotel Ortigia incarna la quintessenza di questo lembo di Sicilia, con un’eleganza propria dello stile Liberty di fine Ottocento e ammirevolmente ristrutturata nel 1995. Emozionante girare tra gli ampi spazi carichi di storia: le Mura Spagnole visibili nella Sala Bastione, e reperti archeologici che, ad oggi, sono parte di quel “Piccolo Museo”, ben valorizzato e vicino all’ingresso dell’area Benessere della Struttura. È un susseguirsi e un’armonica fusione tra epoche differenti, stili, ospitalità e cura nel dettaglio; un piacevole connubio che fa dell’Albergo un sicuro approdo per gli amanti del buon vivere e della buona cucina.

All’ultimo piano, infatti, i clienti sono accolti nel Ristorante “La Terrazza Sul Mare” che, oltre alle prelibatezze dello chef Maurizio Urso, regala uno scenario mozzafiato, direttamente su quel Golfo che dischiude orizzonti di serenità; tutto intorno, domina il salmastro del vicino mare, gioia per gli occhi e per lo spirito. Un panorama da godere appieno nella bella stagione, ma anche quando il sole si congeda presto, l’interno accoglie il cliente con il caldo abbraccio dell’arredo, la professionale ospitalità del personale di sala e la piacevole cucina dello chef.

È una sensazione dello “stare bene”, difficile da sintetizzare in poche righe, ma è frutto della franchezza d’animo di Maurizio e dei suoi piatti, delle attenzioni giustamente formali dei camerieri, della riscoperta dei sapori sedimentati nella nostra memoria che si credevano persi.

Ebbene… esistono posti in cui tutto ciò non solo è possibile, ma si celebra in un rito di raffinatezza e creatività che si trasforma in nutrimento anche dell’anima. La cucina dello chef patron, infatti, dimostra nelle creazioni un grado di abilità tecnica pari alla sua passione, la stessa che traspare dai suoi occhi nel raccontare il suo ritorno nella amata terra di origine, dopo le numerose esperienze in Italia e all’estero; traspare altresì dalla sua cura nel selezionare la materia prima di piccoli artigiani locali con cui cerca di far rete.

L’offerta gastronomica spazia dal pescato alla terra, prediligendo la stagionalità ed il ritorno alle tradizioni di cui l’antica Siracusa è tutt’oggi custode e ambasciatrice.

Maurizio appare un “buon timido professionale”, consapevole di dover inventare con discrezione, recuperando sedimentate tradizioni culinarie, esaltando con sapienza i sapori della sua terra natia. Si ritrova, nelle sue pietanze, la capacità acquisita durante la formativa stagione (a soli 28 anni) presso il Park Hotel Imperial Centro Tao (dove incontra Gualtiero Marchesi e Sergio Mei e apprende l’essenza profonda della macrobiotica); si ritrova anche il know-how appreso durante i suoi viaggi e il suo formativo peregrinare tra importanti “fornelli”.

Cosa ha significato per te vivere lontano dalla tua amata Sicilia dove la materia prima non è, a volte, così variegata?

Non mi pesava, perché è sempre stato prioritario in me il senso di scoperta e sperimentazione; interpreto la cucina come cultura e non come arte.

Cosa ha significato per te l’esperienza al Park Hotel Imperial Centro Tao?

È stata fondamentale; ho capito cosa significasse davvero valorizzare la materia prima e il ruolo del cuoco; proprio in quel momento, mi accorsi di non aver compreso appieno la mia figura e il lavoro che ero chiamato a svolgere, per cui studiai e mi documentai per raggiungere il mio obiettivo.

Tra passione, ricerca e studio cosa conta di più nel tuo approccio alla cucina?

La passione è fondamentale, mentre la ricerca e lo studio si rafforzano a vicenda. Per me è importante che il cuoco compia oggi un passo indietro, andando a studiare la storia delle proprie origini per meglio comprendere il luogo in ci si opera.

Cosa ha significato per te la gavetta?

Capire la gerarchia di cucina, la necessità e la fatica per conquistare il ruolo, gli oneri (e onori) connessi. Grazie a delucidazioni su questi e altri aspetti, ho elaborato una mia personale idea di cucina e ho imparato che, per crescere, bisogna essere umili e ricercare di continuo.

Come ti rapporti con i tuoi ragazzi?

Condivido con loro tutto, non nascondo nulla, non esistono per me segreti ma cerco di motivarli attraverso uno scambio culturale che è alla base della cucina.

Come dialogano il tuo amore per gli Iblei e le origini siracusane nel piatto?

Cerco di “sposarli”, partendo sempre dalla storia. Ad esempio, un piatto che non riesco a togliere dal menu è il gambero in crosta di Capelli d’Angelo, risalente all’epoca dei Greci che già conoscevano la tecnica della frittura per immersione e un impasto grezzo per realizzarla. Quindi, lo realizzo con ingredienti siracusani (il mercato di Ortigia, per il pesce) e contamino con qualche divagazione iblea la ricetta.

Quale altra esperienza conservi nella memoria con particolare affetto? Esistono chef cui ti ispiri?

Quella con Vissani, perché mi ha permesso di continuare il mio percorso di approfondimento della materia prima; del maestro apprezzo ricerca e coraggio di osare. Mi ispiro a Marchesi, a Paul Bocuse, perché ritengo che la cucina classica sia la base di tutto.

Ritieni che la cucina italiana sia superiore, tecnicamente, alla francese?

Per me i Francesi sono imbattibili in tecnica e rigore di cucina. Noi Italiani, però, abbiamo più emotività e creatività nella realizzazione di un piatto.

Che idea hai della cucina giapponese?

Buona parte della cucina giapponese è macrobiotica e per me è fonte da cui attingere tecniche di lavorazione e taluni ingredienti che, contrariamente a quanto si pensi, non sono così distanti dalla cucina mediterranea.

Come hai declinato qui, al Ristorante Le Terrazze, la macrobiotica?

Uso solamente talune tecniche che mi aiutino a veicolare il nostro enorme patrimonio enogastronomico, ad esempio preparando arancini di orzo e miglio per i vegetariani.

Che messaggio vuoi comunicare con un piatto?

Comunicare la storia, il gusto e il mio stato d’animo; in una sola parola, mi piacerebbe lasciare un’emozione. Anche l’impiatto è parte del messaggio, ma spesso mi trovo a dover “cedere” alle richieste del cliente che ricerca un certo “criterio” di presentazione delle ricette. Tuttavia, cambio di frequente l’impiatto perché comunica il mio stato d’animo.

Come realizzi un piatto?

Lo penso, lo disegno, lo comunico ai miei ragazzi e inizia così il dialogo per apportare le modifiche, in base ai giudizi e ai riscontri del mio staff (e non solo).

Provare  le creazioni di Maurizio è un po’ come “assaggiare” il suo animo, il suo essere “autentico” e franco, un inguaribile ricercatore e un instancabile comunicatore. Centrati, curati negli abbinamenti, i piatti sono un’antologia della cucina locale, reintepretata con quella sapienza e quella tecnica che possono scaturire solo da una profonda sensibilità e conoscenza. A coronare piacevolmente l’esperienza gastronomica, l’attenta selezione delle etichette curata dal sommelier Marco, il servizio e un panorama da mille e una notte.

Manuela Mancino

 

Nelle foto, dall’alto:

La Sala

e… semplicemente il mare