REVIVAL: un convegno sull’Impiego di vasi vinari in castagno. Il Km Zero colpisce anche la barrique.

Nel 2015 è stato il turno del Chianti, nel 2020 è il momento del Mugello. Il tutto nell’ottica di realizzare botti o barriques a chilometro zero sfruttando, o meglio rivitalizzando la produzione di masse legnose delle zone montuose toscane come Chianti e Mugello.

I progetti

Il primo progetto (denominato PROVACI) è stato realizzato dalla Fondazione per il Clima e la Sostenibilità con il contributo finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e con l’apporto scientifico dell’Università degli Studi di Firenze, dipartimento DISPAA, oltre alla supervisione dell’Accademia dei Georgofili. I risultati sono riportati nella pubblicazione del Prof. Raffaello Giannini “Il vino nel legno. La valorizzazione della biomassa legnosa dei boschi del Chianti” Firenze University Press 2015.

Il secondo progetto, presentato nel novembre 2020, denominato ReVIVaL Realizzazione dei VasI VinAri con Legno locale, è promosso sempre da Fondazione Clima e Sostenibilità, dall’Università di Firenze Dipartimenti DAGRA e NEUROFARBA, e con la collaborazione del CNR Istituto per la BioEconomia, mentre la sperimentazione è avvenuta con la collaborazione delle aziende Castello di Verrazzano e Fattoria di Lavacchio. Il focus è sempre posto sui vasi vinari, ma le biomasse legnose sono ora quelle dell’Unione Montana dei Comuni del Mugello.

Fusti di Roverella

Le motivazioni e gli obiettivi dichiarati sono questi: “Il recupero degli usi del passato, che potrebbe idealizzarsi nell’aforisma “produrre il vino della casa con i carati dei boschi di casa” ovvero la produzione di vasi vinari, abbinata all’impiego di mezzi e procedure innovativi nella tipicizzazione del vino stesso”.

La ricerca dovrebbe produrre questi risultati:

  1. verificare la produzione legnosa degli assortimenti di castagno da destinarsi alla realizzazione di vasi vinari nell’ambito del Mugello, compresa la caratterizzazione chimico- fisico-meccanica di questi,
  2. valutare tramite prove di affinamento in contenitori di castagno il risultato enologico del connubio fra legno e vino,
  3. validare quali marker bio-chimico- molecolari e fisico-isotipici possano essere utilizzati per monitorare l’evoluzione delle caratteristiche del vino anche ai fini di garanzia nell’ambito di una certificazione dei prodotti in un contesto di filiera legno-vite-vino ecostenibile.

Occorre dire che, passati cinque anni dall’inizio degli studi, mi sarei aspettato che questi risultati fossero già acquisiti e disponibili. L’unico lavoro completato e pubblicato che ci è stato possibile vedere, è quello del Prof. Giannini sulla produzione legnosa dei boschi del Chianti. Per il resto il convegno ha fornito  qualche cenno sulla lavorazione delle doghe in relazione alle caratteristiche fisiche del legno di castagno, grazie anche al contributo della Botti Gamba, e qualche risultato delle prime vinificazioni in castagno realizzate da Verrazzano e Lavacchio. Per i dati scientifici dovremo verificare la disponibilità con gli istituti coinvolti.

Qual’è il problema?

Tavole per doghe dei boschi di castagno del Chianti

Premessa: Bordeaux

L’uso della barrique è talmente compenetrato con i vini francesi AOC che è difficile fare un elenco di quelli che non la utilizzano, per esempio qualche alsaziano per i bianchi. L’utilizzo generalizzato della barrique ha origine a fine medioevo ed è dovuto ad un “dispetto” verso i produttori dell’entroterra da parte dei bourgeois della sénéchaussée di Bordeaux che applicavano ogni angheria commerciale compatibile con le disposizioni del “Privilegio di Bordeaux”.

All’inizio utilizzare un piccolo contenitore al posto dei Tonneaux o delle Queues era complicato e molto oneroso. Nei secoli però si cominciò ad apprezzare la versatilità e la maneggevolezza di questo contenitore che corrispondeva a un quarto di tonneau. Il formato piccolo tornava utile soprattutto quando ci si allontanava dalle comode vie fluviali, le autostrade del tempo, per percorre le disagiate strade interne.

Si cominciò a constatare che i vini conservati in barrique erano migliori e più longevi di quelli in botte grande, ma senza comprenderne la ragione. Con l’esperienza si elaborarono protocolli diversi per i vitigni bordolesi e per quelli borgognoni, ma sempre di barrique si parlava anche se le regole di utilizzo erano dettate dalle esperienze precedenti e non da dati scientifici. Solo nella seconda metà del XX secolo le ricerche scientifiche, soprattutto quelle dell’Università di Bordeaux, hanno dimostrato che la barrique di rovere è lo strumento ideale per stabilizzare i vini rendendoli longevi e conferendo anche, se voluto, particolari aromi al vino.

Esempi di differenti lavorazioni del toppo per la produzione di doghe, a spacco (in alto) e per segagione (in basso)

Ogni fase del processo produttivo è stata studiata e codificata. Il legno è rigorosamente quello dei roveri del Massiccio Centrale, spaccato e non segato per mantenere intatte le fibre, stagionato almeno due anni alle intemperie, piegato prevalentemente a fuoco con vari gradi di tostatura. Da qui si è passati allo studio dei fenomeni fisici che il vino subisce in barrique. Primo di tutti la microossigenazione 

con dati precisi su quanto ossigeno passa dalla doga, dal fondo, dal tappo di vetro, di silicone, in testa o di lato, e soprattutto nelle fasi di travaso (soutirage). Si sono studiati i tannini gallici contenuti nel legno e le quantità di acido ellagico, le loro combinazioni con i catechici e gli antociani per contenuti polifenolici totali del valore di quelli contenuti nei vitigni bordolesi. In queste condizioni si sono determinati i vari fenomeni di stabilizzazione del vino.

Si tratta di tre tipi di reazioni, la più notevole delle quali è la stabilizzazione in colore rosso del legame Antociano-Tannino attraverso la microossigenazione e formazione di un ponte di etanale in presenza dell’acido ellagico. La conseguente positivizzazione dell’antociano fa assumere al vino un colore vivo più intenso di quello dell’antociano di partenza e, soprattutto, rende il legame antociano – tannino stabile nel tempo.

Fermiamoci qui per non complicare troppo le cose, ma intanto molte domande sul binomio Sangiovese-Legno di castagno avrebbero bisogno di risposte precise.

Il Problema

Le botti di castagno erano usate comunemente nelle cantine Toscane prima degli anni ’70 del secolo scorso, e non solo nella regione del Chianti. La saggezza popolare diceva che il castagno presenta vari problemi come la tendenza del legno a “cipollare”, ovvero a sfogliarsi, e la caratteristica aggressiva e amara dei tannini. Il legno di castagno è infatti molto utilizzato per l’estrazione di tannino da conceria. Quando Mario Incisa della Rocchetta, nell’immediato dopoguerra, cominciò a utilizzare, per il Sassicaia, piccole botti simili alle barrique, utilizzando rovere di slavonia, fu inizialmente snobbato, salvo poi aver dato il via al fenomeno dei Supertuscan dove la barrique è imprescindibile.

Qual è una preparazione ottimale delle doghe per un buon utilizzo come botte? Nell’intervento Brunetti, Pizzo, Mancini IBE-CNR si fa qualche cenno alla costituzione del legno di castagno. Ad esempio: peso specifico di 570kg/m3in cui prevalgono raggi parenchimatici monoseriali, in confronto alla quercia (820kg/m3)  dove sono pluriseriali, e quindi un legno meno nervoso e meno sensibile all’umidità. Purtroppo non sono stati presentati altri dati del profilo chimico del legno, in particolare della composizione in tannino. Saranno necessari ulteriori approfondimenti sul taglio del legno, anche in considerazione del fatto che la struttura del castagno non rende possibile lo spacco ad ascia. Si accenna a prove di permeabilità ai liquidi nelle due direzioni radiali e tangenziali, senza però dati numerici.

In definitiva non c’è ancora un vero protocollo per la stagionatura del legno. Mauro Gamba conferma che non ci sono ancora dati sulla porosità, e riferisce delle sperimentazioni, iniziate nel 2015, per la preparazione di botti con il legno di castagno. L’esperienza fin qui maturata ha indicato la necessità di utilizzare piante di dimensioni medio-piccole, diametro 18-20cm, per evitare problemi di nodosità in lavorazione e per avere una maggiore flessibilità. Sono state fatte prove di tostatura con gradi dolce-media-forte, ma i risultati dovranno venire dalle cantine, così come queste dovranno indicare il formato di botte ideale per il binomio castagno-sangiovese.

Castello di Verrazzano. La cantina (foto aziendale)

Per le cantine, Luigi Cappellini, Castello di Verrazzano, ricorda che le prove realizzate fino ad oggi riguardano formati diversi, barrique e tonneaux, con confronto tra sangiovese e blend sangiovese+alloctoni. Premette che un vino di questa tipologia, a causa soprattutto dei costi, deve collocarsi in una fascia alta di mercato per attirare attenzione e comprensione del prodotto. In effetti tutti i vini fino ad ora prodotti in castagno sono decisamente diversi da quelli in rovere e devono prevedere impieghi diversi con la cucina. Diversi, però, non significa ancora che abbiano le potenzialità per assurgere ai vertici enologici.

Il vino in castagno è generalmente meno colorato del corrispondente in rovere e il tannino è piuttosto aggressivo nei vini giovani, mentre si arrotonda con l’invecchiamento. I profumi sono più minerali, meno speziati e meno intensi rispetto al rovere. Anche la tostatura è meno avvertibile. Per ora non sono stati approfonditi i risultati di assemblaggi fra vini in rovere e in castagno.

Alla Fattoria di Lavacchio, come riferisce Alfredo Massetti, sono in corso prove analoghe con i vini della linea “Puro”, ma qui la comprensione dei risultati è complicata da una variabile ulteriore che è la rinuncia all’uso dei solfiti. Francesco Rossi, agronomo molto presente in Maremma, riferisce che i suoi primi esperimenti hanno avuto come risultato un vino con finale molto amaro. Le note vanigliate tipiche del rovere sono assenti nel castagno (ma questa caratteristica potrebbe costituire addirittura un pregio. ndr). Da giovane il vino ha forti sentori di resina che con l’invecchiamento si attenuano trasformandosi in balsamici. I vini curati da Rossi, sino ad ora, sono stati immessi sul mercato solo in blend vino in castagno/vino in rovere.

Le conclusioni

Traendo le conclusioni si può dire che lo stato dell’arte attuale del vaso vinario in castagno è ancora costellato di molti interrogativi che richiederanno studi rigorosi e approfonditi.

In particolare, oltre ai risultati prefissi dichiarati sopra, dovranno essere definiti:

  • un regolamento preciso sulle dimensioni delle piante, sulle parti utilizzabili, sul taglio, sulla stagionatura delle doghe all’aria aperta,
  • un protocollo di fabbricazione dei vasi vinari, riscaldamento/tostatura, piegatura, dimensioni,
  • la composizione chimica del legno di castagno con particolare riferimento al tannino ellagico, alle aldeidi e agli acidi e le possibili combinazioni con i componenti del vino,
  • lo studio della porosità del legno, in particolare la quantità di ossigeno che passa da doghe e fondi,
  • un protocollo di maturazione e affinamento del vino dal periodo post fermentazione all’imbottigliamento. Dati sulla malolattica in castagno. Meccanismo di stabilizzazione del colore: il Sangiovese ha una composizione in antociani diversa dai vitigni bordolesi, in particolare è presente la cianidina e abbiamo meno malvidina. Inoltre la composizione in tannino e in acidi del castagno è differente, quindi occorre capire quale possa essere il meccanismo di creazione di un legame stabile tra antociano e tannino, in presenza di quanto ossigeno e in quanto tempo.
Carati di castagno del Chianti

I due progetti sulle biomasse legnose del Chianti e del Mugello hanno lo scopo lodevolissimo di incentivare un prodotto che oltre ad essere locale può essere ottenuto in maniera rispettosa per l’ambiente, anzi salvaguardandone la salubrità e preservando un importante patrimonio forestale. In questo modo si favorirebbero varie industrie manifatturiere e l’occupazione giovanile.

A riguardo della sostenibilità, basta guardare a quanto accade in Francia per le piantagioni di querce: per ogni albero abbattuto per fabbricare barrique deve essere immediatamente piantato un nuovo virgulto, realizzando così una rotazione che non ha impatti negativi sull’ambiente. Occorre però un impegno più deciso nella ricerca da parte delle nostre Università e da parte delle aziende in fase di sperimentazione, perché la quantità di dati necessaria ad ottenere risultati soddisfacenti è molto grande e richiede tempi, sinergie e collaborazioni molto importanti.

Paolo Valdastri

Novembre 2020