A volte ci sono occasioni nelle quali è un poco difficile mettere insieme tutta la sostanza di una serie di assaggi, di un’occasione di conoscere un vino, di una sede in cui mettersi in gioco ed imparare qualcosa. E’ quanto è capitato al sottoscritto in occasione di una doppia verticale di due Chianti Classico da singolo vigneto, il Capannino e il Montornello, da me amatissimi, di Bibbiano di Castellina in Chianti, azienda posseduta e amorevolmente condotta da Tommaso Marrocchesi Marzi, che non finirò mai di ringraziare per questa opportunità.

Registrare le impressioni di degustazione dei singoli assaggi? Utile, purché non fine a se stesso. Giustificare l’attribuzione dei punteggi? Svilente per la personalità espressa dai vini e per le emozioni provate. Discettare delle differenze geologiche tra i due cru? Fondamentale certo, ma non esaustivo. Pertanto, molto modestamente, preferisco andare per concetti consequenziali: Chianti Classico-Sangiovese-Gambelli-Bibbiano-Capannino-Montornello.

Chianti Classico

Denominazione popolare, tanto più pervasiva quanto più poco compresa. Sciaguratamente spesso confusa con il Chianti, da cui lo separa una personalità affatto diversa. Territorio vasto, composito, articolato, del quale solo adesso, faticosamente, si cominciano a comprendere, mostrare senza vergogna ed esaltare le differenze, che contrariamente a quanto può apparire ne costituiscono la forza, in quanto conferiscono ai rispettivi prodotti un’unicità puntuale ed affascinante.

In un mercato enoico che fortunatamente inizia a stufarsi di massive omologazioni ricercando identità sincere, le prospettive sono potenzialmente rosee, ma il travaglio per liberarsi di certi orpelli (taglio internazionale – e questo sarebbe il meno -; vinificazioni che tendono a un certo stile talvolta considerato più pagante dal punto di vista commerciale; alcuni condizionamenti di certa critica enologica) sarà lungo e faticoso. Per fortuna alla base di tutto c’è il…

Sangiovese

Di tutti i vitigni trattasi di quello che chi Vi scrive conosce meglio, e quindi sostengo a ragion veduta che di Sangiovese non ci si può annoiare, Possono piacere o meno la sua nervosità, la sua spinta acida, la sapidità e il tannino ruspante in gioventù, ma non è mai uguale a se stesso.

Ha questa capacità schizofrenica, autistica se volete, di registrare puntigliosamente ogni miserrima variazione di composizione del terreno/esposizione/altitudine/temperatura media/ventilazione/piovosità/clone (e quanti ce ne sono!!)/potatura/scelta del momento vendemmiale/vinificazione dalla durata della macerazione in giù.

Sfruttando inoltre i vitigni tradizionali ad esso “fratelli in armi” (Canaiolo, ecc.), il potenziale di caratterizzazione è pressoché infinito, sia come muscoli sia anelando alla finezza, ma occorre una grande sensibilità e umiltà da parte di un interprete di queste risorse, quale è stato…

Giulio Gambelli

“Bicchierino”, in primis, era l’umiltà fatta persona. Il suo rigore e la sua austerità, la precisione in cantina, l’ossessione per la pulizia in ogni operazione di vinificazione, e il credo indefettibile in un’enologia poco interventista erano al servizio dell’espressione del territorio attraverso il vitigno.

Un territorio che lui batteva palmo a palmo in certe solitarie, splendenti mattine, aspettando la selvaggina con la doppietta in mano, oppure percorrendolo senza posa su quella impresentabile Renault 4 che rimane l’auto più famosa del mondo del vino toscano e non solo. Di ogni centimetro quadrato di questo territorio Gambelli conosceva vita, morte e miracoli, splendenti prospettive e oscure problematiche, con un’empatia che pochi sarebbero capaci di riservare a un essere umano. Vi erano luoghi ove Gambelli era una persona di famiglia, come…

Bibbiano

Esempio paradigmatico di molteplicità del potenziale espressivo, oasi mirabilmente piazzata a mezza costa di un declivio perfettamente esposto, che gode di un’insolazione che completa le maturazioni, di un terreno che esalta la struttura e la sapidità dei vini, di una ventilazione che previene le malattie.

Qui la famiglia Marrocchesi Marzi è ben consapevole che eventuali sperimentazioni in vigna e in cantina potrebbero essere fini a se stesse, lesive di un magico equilibrio il cui valore è ampiamente dimostrato da uno storico di bottiglie inenarrabili, che si esaltano al trascorrere del tempo trascolorando in una purezza comunque adamantina, perfettamente coerenti a loro stesse, alle irripetibili specificità che sarebbe criminale tentare di modificare. E’ quanto avviene, in particolare, con…

Montornello e Capannino

Occorreva ascoltare la pacata precisione con cui Tommaso Marrocchesi Marzi (con l’enologo Maurizio Castelli in aiuto) descriveva le sue vigne (con una chiarezza mai pedante che vorremmo udire più spesso da altri produttori) per rimanere stupiti di quanta diversità possa rinvenirsi in uno spazio così ristretto, di come a distanza di poche centinaia di metri i capricci della geologia, un corrugamento di una faglia, una subsidenza, abbiano portato alla luce composizioni del terreno diverse, capacità di drenaggio e giaciture differenti, con il corredo di gradienti di temperatura e di ventosità del tutto distinte.

E tutto ciò non era un mero esercizio di erudizione, bensì lo si toccava con mano nei calici, l’argilla blu omogenea del Capannino che erompeva in maturità, i sedimenti pliocenici di origine marina del Montornello che rifinivano il tannino anche nelle annate teoricamente più complicate.

Poiché proprio in esse, volutamente scelte per l’assaggio a questo fine, i due cru hanno dato prova di bellamente resistere alla prova del tempo. Ad esempio, per il difficile millesimo 1994 era il Montornello a “prevalere”, giovanissimo nel colore, maturo e accattivante al naso (ciliegia sotto spirito, arancia sanguinella), grintoso nella tessitura al palato, a fronte di un “fratello” più sottile e asciugante (dopo tutto, sono passati 25 anni…). Ma il Capannino 1996 (classica annata “a macchia di leopardo”) svettava per gioventù imbarazzante, saporito e dolce di frutto in bocca, tutto sommato incredibilmente ancora in debito di apertura; mentre il Montornello comunque si difendeva onorevolmente con freschezza e finitezza tannica.

Il 1999 era l’annata più “blasonata” a disposizione in degustazione: di regolare maturità, costrinse al diradamento per esuberanza di resa. Il Capannino era tanto (stranamente) introverso all’olfatto, quanto polposo, equilibrato e potentemente estratto al sorso; il Montornello era filigranato, sapido, fine, l’acidità perfettamente integrata nel corpo del vino, l’avvolgenza che bilanciava la sapidità.

Due le vendemmie del terzo millennio presentate: la 2005 fu calda e potenzialmente splendida, un poco rovinata da piogge (con conseguenti attacchi di botrite) cadute nei giorni cruciali per la completa maturazione delle bucce; la 2008 è fine, sottile, sottovalutata rispetto ad altri millesimi, ma in realtà foriera di un superiore equilibrio che si dispiega pian piano col tempo. Nel primo millesimo entrambi i vini erano relativamente semplificati aromaticamente, il Montornello appunto più “diritto” del solito, il Capannino comunque accattivante per succosità.

Assai più riusciti i risultati del 2008, più recente annata in assaggio, 11 anni di distanza dal momento della degustazione che sono un poco il minimo sindacale per vini di questa portata per sprigionare il loro potenziale: ed ecco un Capannino declinato nelle sue migliori qualità di sapidità e morbidezza, polpa ed eleganza, ed un Montornello con l’alcool stranamente appena fuori dalle righe, polposo, elegante nel tannino, lungo e diffusivo al palato.

Qual è il migliore dei due cru? Si può affermare che è solo questione di gusto personale, e che, a braccio, parrebbe che il Capannino stemperi la sua esuberanza nelle annate più fresche, e che il Montornello al contrario, in quelle caratterizzate da temperature più elevate, esalti la sua naturale eleganza con una maggiore pienezza.

Ma sono minuzie: quello a cui ho avuto l’onore di partecipare è stata la dimostrazione puntuale che il terroir, ovvero la combinazione di un’identità irripetibile con la sapienza e l’umiltà necessarie per valorizzarla e farla emergere, crea un’esperienza gustativa che non si dimentica facilmente. Né lo si vorrebbe: perché di eleganza e personalità a questi nobili livelli, dopo tutto, nel mondo del vino non ci sono così tanti buoni esempi.

Riccardo Margheri