Vineyard in Bourgogne
Leggo, mi documento, studio, mi illudo di trovare riferimenti e rimandi, di inquadrare le meraviglie delle sensazioni che provo degustando Borgogna.

Chi vi scrive spera di riuscire a partecipare alla imminente edizione dei Grand Jours de Bourgogne https://www.grands-jours-bourgogne.fr/, l’evento di degustazione biennale per operatori che copre tutte le denominazioni, tutti i comuni, l’intero multiforme universo della Borgogna. È un’occasione imprescindibile per approfondire la conoscenza, appunto, di un universo: sempre cangiante, sempre affascinante, molteplice nelle sue declinazioni, impareggiabile nella sua profondità. Capace, incredibilmente, di infliggere a volte all’appassionato le più feroci delusioni con assaggi non all’altezza della notevole fama che li accompagna. E, molto, molto più spesso, di accompagnarlo su un piano superiore, di trascendere l’esperienza di degustazione, sublimarla in un arricchimento culturale, assai di più che mere note organolettiche o punteggi diligentemente trascritti.

Per il sottoscritto la Borgogna è una categoria dello spirito. Non solo la pietra filosofale tramite cui l’hobby della passione enoica è diventato qualcosa di più continuativo e profondo. È luogo ove mi sono arricchito, a partire dal quale nuovi orizzonti si sono aperti, dove la mia nuova idea di vino è nata: frutto della terra, espressione del genius loci, risultato di sogni, fatiche, pianificazione, precisione, dedizione, tecnologia, anima (non necessariamente in quest’ordine), senso di una missione da compiere. Dove ogni assaggio, ogni vino, è un cluster formidabilmente inestricabile tra luogo, uomo e il loro millenario legame. Frutto irripetibile di innumeri variabili geologiche e climatologiche, storiche e dottrinarie, episodicamente modaiole e tradizionalmente rassicuranti, di comportamenti savi e audaci tentativi: in sintesi, della terra e dell’uomo, più che della terra e più che non dell’uomo. Ogni minima variazione di queste condizioni – non solo al contorno – è sviscerata, scomposta, scolpita, ribadita, espressa o velata, comunque presente.

Ne manco da tempo, e sempre più mi si trascolora in luogo di memoria e di sentimento. Ricordo immacolate giornate autunnali, dalla luce quasi cerulea, nelle quali l’occhio si perdeva nella successione senza fondo dei filari di vigne come nelle profondità. E la peregrinazione tra le cantine di Aloxe Corton, quasi accoglienti segrete, a sviscerare le nuance di poderosi ma aerei Corton Charlemagne. Passeggiate nel centro di Beaune tra vetrine dove occhieggiano bottiglie inarrivabili. Lo Chateau de Vougeot, illuminato come una stella di notte, gremito all’inverosimile di giorno per aggiudicarsi una lacrima dei forse più straordinari vini rossi del mondo.

E poi i vini. I Pinot Noir che son da non definirsi tali, ma interpretazione dell’anima di luoghi. Lo Chardonnay, che molto semplicemente diviene “altro” rispetto a tutto quanto può essere altrove. Il pugno di ferro in guanto di velluto di uno Chambertin e la sapida verticalità di uno Chablis. L’ammiccante avvenenza di uno Chambolle Musigny e l’opulenta grazia di un Meursault. Il paradigma dell’eleganza di Vosne Romanée e l’insuperabile complessità di un Montrachet. E molto, molto altro.

Leggo, mi documento, studio, mi illudo di trovare riferimenti e rimandi, di inquadrare le meraviglie delle sensazioni che provo degustando. Annoto e consumo l’indispensabile, mirabile volume dell’impareggiabile Armando Castagno (Borgogna, Le Vigne della Cote d’Or, che mi sia consentito citare) ma in realtà imparo solo che non posso che aspirare ad imparare qualcosa di nuovo. Ci sarà sempre qualcosa in più. La Borgogna mi regalerà sempre qualcosa di successivo, di ulteriore. Non finirà mai. Non mi annoierò mai. E io continuerò ad amarla. Sempre.

Riccardo Margheri