Languedoc, Roussillon, Loire. Il significato di un viaggio: scuola di vita e di vino, ed occasione di donare.
Frequentando il mondo del vino come avviene al sottoscritto, con una continuità che a volte sconfina con l’ossessione, dovrebbero esserci momenti in cui il gradevole ed infernale ritmo delle degustazioni e degli “eventi” rallenta, di modo che una rinnovata consapevolezza focalizzi gli elementi più significativi che le molteplici esperienze dovrebbero aver sedimentato nelle nostre conoscenze. In realtà, ben poco di tutto ciò avviene: bisogna quasi farsi violenza per fermarsi, meditare, distillare quanto di (molto) bello è rimasto dal copioso numero di calici avvicinati con attenzione dal degustatore che aspiri a definirsi professionale.
Ebbene, se mi fermo a riflettere (come mi costringo a fare), non posso che concludere che la più fantasmagorica esperienza del mio 2018 vinoso è stato un lungo ed esaltante viaggio alla scoperta di regioni della Francia enoica da noi non conosciute come in effetti meriterebbero: prima il Languedoc, poi il Roussillon, e successivamente la Loira, anche se limitatamente alla sua sola parte Ovest (quindi con l’esclusione dei Sauvignon Blanc più blasonati).
Il viaggio
Un viaggio, durato più di dieci giorni, dove l’accrescimento culturale si sommava al piacere di degustare etichette nuove ed attraenti in quanto tali; inoltre, ogni degustazione, ogni escursione organizzata rilanciavano quanto provato ed appreso nei giorni precedenti e li arricchivano di nuovi legami e rimandi. Condivisi con altri compagni di avventura più o meno esperti od avventizi, presto divenuti amici, e complici.
Un itinerario che così ricco e godibile non avrebbe potuto realizzarsi se non per la puntuale organizzazione degli organismi ufficiali protagonisti, il Comitée Interprofessionel du Vins du Languedoc e InterLoire (a memoria, spero di averli scritti correttamente). In particolare, non posso fare a meno di ringraziare almeno Anaïs Chauvigny, Emilie Charvet e Philippine Bondil, persone impagabili per le quali la pazienza e la gentilezza non sono mai state disgiunte da un sorriso.
E’ un viaggio, del quale, colpevolmente, non ho ancora scritto. I miei dieci lettori sanno che sono di digestione lenta, e che poco mi si confà snocciolare a mitraglia i migliori assaggi in un instant report di un evento enoico. Piuttosto, abbisogno di fare confronti, documentarmi, tirar le somme. Perché, alla fine, un minimo di comprensione olistica di quanto sperimentato sarebbe il caso rimanesse, e l’impressione di aver “capito” ed esser divenuto qualcosa di più e di meglio come degustatore e appassionato di vino dovrebbe pur confortarmi.
Peraltro, ha comunque senso dedicarmici adesso, a tanto tempo di distanza, poiché quest’anno avrò il piacere e l’onore di ripetere l’esperienza in Loira (purtroppo non nel Sud della Francia, causa contemporanei impegni di assaggio).
Le denominazioni
Per inquadrare il tema, vale la pena all’inizio di spendere qualche parola sul sistema delle denominazioni (intanto) del Languedoc, ovvero di ciò che, dotato di un entusiasmo ben speso, mi sono trovato ad affrontare nei primi giorni di full immersion (peraltro, il sistema della piramide qualitativa è piuttosto simile anche nelle altre regioni visitate). Sui ben 40.000 (40.000!!) ettari ad Appellation Controllée (per chi non lo sapesse, l’equivalente della nostra DOC/DOP), insistono ben 23 denominazioni, dalle caratteristiche più diverse.
Si va da vigne praticamente a livello del mare, anzi, vicino alle spiagge, con tutto quel che ne consegue (prevalenza di suoli sabbiosi rischio di stress idrico ridotto dall’umidità delle brezze marine, ecc.), ad impianti anche a 400-500 mt. slm, su terreni di volta in volta scistosi o calcarei o argillosi o magari tutte queste cose insieme, variamente esposti e ventilati, che in quota temperano l’aggressione del caldo mediterraneo con un adeguato gradiente termico giorno/notte. In estrema sintesi, di tutto di più, per tacer degli uvaggi che sono sempre misti, e a discrezione del produttore.
Per rendere comprensibile questo bailamme, alla critica specializzata, agli operatori commerciali, e soprattutto al pubblico, dal 2007 è stata istituita una denominazione di ricaduta Languedoc AOP, nella piramide qualitativa subito al di sopra dei vini da tavola e IGP. Nell’ambito di essa sono stati individuati cinque Crus du Languedoc, in ordine rigorosamente alfabetico Corbierès-Boutenac, La Clape, Minervois-La-Livinière, Pic-Saint-Loup, Terrasses-du-Larzac, ognuno dei quali costituisce una denominazione a sé stante. In tale contesto, il termine Cruviene speso per rappresentare il vertice della classificazione, che dovrebbe corrispondere a una (superiore) irriproducibile specificità.
Le altre appellation sono rubricate come Grand Vins du Languedoc: è noto come in Francia il termine Grand Vin si ritrovi con una certa facilità: è una tecnica di marketing datata ma efficace, poiché rassicura il consumatore sulla qualità vera e presunta di quello che acquista.
Questo ha accompagnato l’inizio dei miei dodici giorni di assaggi; che pochi non sono, e apposta per questo li vorrei trattare con calma uno per uno, come un diario di viaggio a puntate (e per farlo avrò bisogno di molto tempo). Troppa è la paura di tralasciare qualcosa in un mare magnum di un migliaio di calici. E, ovviamente, oltre ad essi c’era molto altro.
Se chi avrà la pazienza di leggermi sentirà nascere la curiosità di approfondire la conoscenza di questo vero e proprio mondo enologico (e non solo), da noi purtroppo completamente sconosciuto, niente mi farebbe più piacere, poiché per il sottoscritto la cultura del vino è condivisione: si scrive e si racconta per narcisismo, ma per fortuna anche per il piacere di donare quello che si è acquisito. Molto modestamente, senza la profondità che altri possono vantare, mi accingo a farlo ad iniziare dai prossimi articoli.
Riccardo Margheri