La chiocciola delle mille sagre, dall’allevamento 2.0 alla cosmetica con centro nevralgico a Cherasco.
Da piccolo era una festa, ci si svegliava all’alba in primavera inoltrata, si indossavano gli stivali e si andava per campi che il sole stava appena nascendo, per raccogliere le “lumache”.
Era un po’ come per la ricerca dei funghi o delle more, ogni “cercatore” aveva le sue zone, spesso si cambiava ma qualche volta si tornava negli stessi campi. La differenza è che raccogliendo questi molluschi si faceva anche un favore agli agricoltori, soprattutto perché di solito infestavano i campi di erba medica da foraggio.
E il risultato, come per la caccia o per la pesca, era poi oggetto di accesi dibattiti: “noi nel campo sulla tal strada (senza dare troppi dettagli ovviamente) in due ore ne abbiamo fatte 4 chili!”; “poche, io e mia moglie nel campo dopo la vigna del tizio e caio (altrettanto generico) ne abbiamo raccolti 5 chili e mezzo!”.
Questi erano i racconti, condivisi magari davanti ad un bicchiere di vino mentre si controllava il bottino messo a “spurgare” per poi essere cucinato con il classico sugo al pomodoro, alternativa gustosa a chi aveva problemi con i molluschi ma non con la fetta di pane intinta nel condimento. Inutile dire che l’apporto di noi bambini era relativo, tranne quando si innescavano le gare tra fratelli!
Erano altri tempi, parliamo di 30 e più anni fa, allora la raccolta di lumache, funghi e frutti della terra vari avveniva in un contesto di sussistenza per alcuni e di piacere per altri, ed era reso possibile dalla presenza – almeno dalle nostre parti, ovvero la zona tra i Castelli Romani e l’Agro Pontino – di molteplici fondi aperti dove entrare con discrezione, senza far danno.
Oggi è obiettivamente cambiato tutto, anche chi vive in campagna non fa più questo tipo di uscite e sono state aggiornate le regole sul consumo, alimentari e sanitarie. Per non parlare dei nomi e dei contesti di utilizzo, innanzitutto oggi si definiscono “chiocciole” (per lumaca si intende il mollusco senza “casa”) e inoltre sono entrate nel mondo del “foraging”, ovvero di quel contesto alimentare che fa riferimento ai cibi selvatici in generale, intesi però come alimenti di qualità rispettosi dell’ambiente e non tanto, o non solo, reperibili in natura.
Tra l’altro qualcuno ha coniato anche il termine di “superfood”, nel senso che – come per altri cibi – le lumache hanno valenza alimentare alta, per esempio grazie al grande apporto in proteine nobili unito a scarsissimi grassi. Infine, cosa più importante, è diventato molto più sicuro e valido l’allevamento rispetto alla cattura in natura.
Quello che però è rimasto intatto, anzi sta crescendo proprio in virtù di questi nuovi utilizzi, è l’amore degli italiani per le chiocciole. Si contano infatti più di 1000 sagre dedicate in tutto lo Stivale, anche se la parte del leone la fa la Sardegna con un consumo pari a 10 volte quello della media delle altre regioni, seguita da Sicilia e Puglia.
Lo sviluppo principale è avvenuto nel dopoguerra, facendo sì che le chiocciole si consacrassero nella cucina tradizionale popolare di tantissimi territori, arrivando a ritmi di crescita impressionanti che, negli ultimi 10 anni, hanno toccato quota +300%.
Un successo che non è andato di pari passo con l’aumento della produzione, in effetti l’Italia è il primo Paese produttore con allevamento naturale ma ha un deficit di materia prima elevatissimo, importando circa l’80% di chiocciole vive dall’estero.
Qui il leader europeo è la Spagna, sebbene – chiarendo anche un altro aspetto dai riflessi negativi – nel mondo il nome da tutti conosciuto è quello francese di escargot. Attualmente il giro d’affari sfiora i 300 milioni di euro l’anno con quasi 900 produttori coinvolti, impegnati sul doppio binario alimentare e del comparto benessere, grazie alle grandi proprietà della bava estratta dalle chiocciole, che ha ampie applicazioni in campo cosmetico.
Eppure, tornando all’aspetto alimentare e organolettico, le chiocciole francesi sono tecnicamente meno valide di quelle da allevamento, naturale, italiano.
Il concetto è stato chiarito da Simone Sampò, direttore dell’Istituto Internazionale di Elicicoltura Cherasco, in uno degli interventi che hanno animato lo spazio The Circle del Merano WineFestival andato in scena lo scorso novembre.
Un contesto utile a presentare una indubbia novità, le chiocciole tutto sommato non sono ancora nelle grazie della stampa dedicata all’alta gastronomia e nemmeno nel mirino dei food blogger, ad un pubblico misto di appassionati e giornalisti.
L’allevamento sarebbe superiore in virtù di un sistema, ormai studiato e certificato, che permette di produrre chiocciole prevedibilmente buone per il consumo grazie ad un’alimentazione controllata, naturale, in spazi dedicati e salubri, senza il rischio di interferenze esterne. Quelle che, per un animale di questo tipo, possono modificare moltissimo anche il gusto.
In natura infatti si raccolgono chiocciole delle quali, ovviamente, non si sa nulla. Non si può prevedere quindi se avranno tutte un gusto simile o se, magari, avranno sentori sgradevoli o amari, dovuti semplicemente a quello che hanno mangiato prima della cattura.
La superiorità dell’allevamento è dunque in questa prevedibilità e nel controllo che si può, e si deve, attuare da parte di allevatori preparati e capaci.
Le chiocciole del Metodo Cherasco
Il suffisso “naturale” è collegato alle particolari metodologie messe a punto negli anni dagli allevatori italiani, per quanto riguarda l’Istituto diretto da Simone Sampò addirittura attraverso un “Metodo Cherasco” (580 gli impianti affiliati sui circa 800 totali in Italia) che prevede allevamento in campo all’aperto, alimentazione vegetale grazie ad apposite aree di coltivazione, riproduttori certificati, migrazione naturale, rete di contenimento testata e agricoltura simbiotica con l’inserimento di funghi micorrizici.
Un sistema che prevede un accrescimento più lento dei molluschi rispetto a quelli di tipo intensivo, rendendo però il prodotto finale di carne più pregiata per consistenza e gusto. È, inoltre, un ciclo a doppia redditività grazie a particolari macchinari che permettono l’estrazione della bava in modo non invasivo, creando quindi le condizioni per il riposizionamento in natura delle chiocciole dopo il processo di recupero delle sostanze utili alla cosmetica.
Chiocciola ad oggi significa Cherasco. Anche se la Sardegna rimane il primo mercato di consumo è proprio nel cuneese che si stanno portando avanti i progetti di ricerca e lo sviluppo delle tecnologie, oltre al fatto che proprio qui tra collina e pianura si stanno ampliando le superfici di allevamento.
Una storia che prende vita nei primi anni Settanta, inizialmente con piccoli allevamenti per il consumo personale o per il piccolo mercato locale, poi con una strutturazione più importante, gli studi e la ricerca.
Le specie su cui si stanno concentrando ricercatori e produttori sono due, la Helix pomatia e la Helix aspersa, entrambe della famiglia Helicidae. Il percorso che precede la messa in commercio, oltre all’allevamento naturale a ciclo chiuso, serve a portare sul mercato un cibo sano, garantito, organoletticamente valido e soprattutto comodo, essendo di solito messo in commercio già pronto per essere cucinato.
Facilità di utilizzo dunque ma anche qualità così alta da entrare di diritto nella cucina gourmet di ristoranti stellati, in cerca spesso di elementi che possano rinnovare i menu senza stravolgere totalmente l’origine dei piatti.
E proprio a Cherasco, giustamente, si tiene uno degli appuntamenti di promozione più importanti della chiocciola, nel mese di settembre grazie all’“Incontro Internazionale di Elicicoltura” si riuniscono nella piccola cittadina esperti provenienti da ogni parte del mondo e appassionati pronti a gustare i prelibati molluschi.
Fabio Ciarla