Faccio una premessa fondamentale: io amo il Chianti Classico. Chi mi legge sappia che sull’argomento non sono obiettivo al 100%. Mi rallegro nell’anima ogni qual volta posso posar lo sguardo sui colli coperti di vigne ed oliveti.

Faccio una premessa fondamentale: io amo il Chianti Classico. Chi mi legge sappia che sull’argomento non sono obiettivo al 100%. Mi rallegro nell’anima ogni qual volta posso posar lo sguardo sui colli coperti di vigne ed oliveti. Mi pregio di aver l’onore (che è anche un piacere) di condurre seminari per conto del Consorzio del Marchio Storico – il Gallo Nero -, e così tentare di dare un’idea dell’affascinante complessità che questo territorio esprime. Sfido qualunque altra denominazione di queste dimensioni ad esprimere una qualità media così elevata, con vini più o meno condivisibili come impostazione stilistica, ma comunque dotati di frutto, pienezza, maturità tannica, correttezza di esecuzione.

Detto questo, parlando dell’Anteprima svoltasi alla Stazione Leopolda a Firenze il 17 e 18 febbraio scorsi, destreggiarsi tra la diversità di annate, tipologie, terroirs, uvaggi, ecc. era veramente difficile, anche se esaltante. Tentiamo quindi di estrapolare qualche impressione che abbia valore di maggiore oggettività dai più di 200 assaggi compiuti.

Innanzitutto le nuove annate presentate. Il Chianti Classico 2013, a parte un eccesso di maturazione su qualche campione conseguentemente dall’apparenza più artefatta, coniuga bene fragranza di frutto e distensione alla beva. C’è polpa, ma anche freschezza ed equilibrio. Vini tendenzialmente così piacevoli subito che ci si dimentica quanto bene possano evolvere.

A loro volta, i 2012 – annate, riserve e Gran Selezione – mostrano come il Sangiovese abbia digerito quella torrida estate grazie alle piogge settembrine (come da informazioni fornite dal Consorzio) riuscendo a completare la maturazione, sia dal punto di vista aromatico (senza appiattirsi su toni “cotti”), sia anche da quello fenolico.

Le annate precedenti, in generale giovandosi al momento attuale di un più lungo affinamento in bottiglia, si delineano con maggiore compiutezza, confermando i caratteri già intravisti nei precedenti assaggi (e libagioni conviviali…); ovviamente, con tutte le variabili del caso in termini di territorio e di impostazione stilistica delle aziende. Ecco quindi un 2011 meno monolitico di quel che l’annata con punte di temperature elevate avrebbe potuto far temere, al contrario disteso, integrato nell’equilibrio complessivo di tutte le sue componenti, in più di un caso con un’apprezzabile finezza tannica.

Un 2010 teso di acidità, profondo, sfumato nelle peculiarità aromatiche, di classica austerità ma dal grande potenziale evolutivo assolutamente non ancora del tutto esplorato. Un 2009 “largo” nella sua accattivante immediatezza fruttata, dal succoso volume al palato, già espressivo nella sua polposità, ma apparentemente un poco in debito della spinta acida e della finitura della maturità fenolica per dispiegarsi in un’evoluzione prolungata; ecc. ecc.

Note liete in tema di caratterizzazione varietale e territoriale delle etichette presentate. Intanto,  l’espressione del Sangiovese (tensione acida; grana tannica di grande presa, ai limiti dell’aggressività in gioventù, ecc.) è sempre più riconoscibile. Era successo già a Montalcino negli ultimi anni (in quel caso con la “spinta” dello scandalo Brunellopoli); si ripete qui, a dispetto di certi affinamenti in legno un po’ baldanzosi (considerata la delicatezza del rapporto del vitigno con la barrique; ma ne parleremo poi) e dell’eventuale assemblaggio con i vitigni internazionali cosiddetti migliorativi.

Chi Vi scrive, pur amandolo, non è un talebano del Sangiovese in purezza: trattasi notoriamente di uva tra le più difficili da coltivare, che dà il meglio di sé solo in condizioni affatto particolari. Ecco quindi che in quelle esposizioni e a quelle altitudini in cui la maturazione delle bucce non sempre è raggiunta, l’aggiunta del Merlot può smorzare qualche asperità, quella del Cabernet Sauvignon infittire la tessitura tannica. Senza per questo necessariamente abusare della finezza varietale, né adagiarsi in un rassicurante ma stereotipato modello di stile internazionale fin troppo noto, fatto di eccesso di morbidezza, stramaturazione, dilagare delle note dolci del legno.

Ciò premesso, quello che con sempre maggiore evidenza risalta dagli assaggi compiuti è che dalla identificazione del Sangiovese ha tratto beneficio la trasparenza espressiva, il carattere territoriale dei vini assaggiati. Ovvero, attualmente l’appassionato di Chianti Classico può bearsi di una cornucopia di sfumature e stili strettamente legati alla localizzazione dei vigneti, di cui le aziende sanno giovarsi imprimendo alle proprie “creature” (delle quali sono a un tempo demiurghi e interpreti) stimmate di unicità.

In ordine sparso, dalla fragranza di Lamole alla nobiltà tannica di Radda, così sugli scudi negli ultimi anni di riscaldamento climatico; dalla potenza controllata di Panzano all’opulenza fruttata, ma sempre più spesso declinata in finezza, di Greve; dalla classicità elegante di Barberino alla presa al palato di Castellina; dalla profondità di Gaiole (e di Monti in Chianti) alla varietà di terroir di Castelnuovo della Berardenga: tutte queste declinazioni trovano compiuta espressione, non come speculazione intellettualistica di qualche produttore fuori dalle righe che vuole distinguere a tutti i costi i propri vini, ma come straordinaria piacevolezza di beva.

In questo contesto, la presente discussione in merito alle possibili denominazioni territoriali (quando non reiterata, comunque dormiente sotto le ceneri) assume una valenza da ridefinire: il modello dei village borgognoni dovrebbe essere rapportato alla specificità chiantigiana; i confini amministrativi dei comuni non corrispondono a quelli delle variazioni pedoclimatiche; vi sono frazioni che per quello che esprimono dal punto di vista organolettico avrebbero dignità di essere indicate in etichetta al di là delle rivendicazioni di campanile, ecc. ecc. Il discorso sarebbe lungo e certamente impossibile da esaurire in questa sede: non ne mancherà l’occasione.

Infine, la Gran Selezione. Premettiamo che tutto quanto serve a svincolare l’immagine del Chianti Classico da quella del Chianti generico (con tutto il rispetto per chi lo produce e chi lo beve) è benvenuto: chi Vi scrive ben conosce le difficoltà di spiegare ad un pubblico internazionale, digiuno dei bizantinismi del Bel Paese, come sia possibile che il nome di un vino sia distinto da quello del territorio ove viene prodotto, e anzi, che il nome di quel territorio sia associato ad altra denominazione, subdolamente similare ma ben distinta, prodotta al di fuori di esso!!

Ciò detto, e soffocate le risate involontarie per questa aberrazione apparentemente ineliminabile, il giudizio sulle etichette della Gran Selezione rimane sospeso. Il relativo disciplinare richiede più o meno esplicitamente un peso estrattivo superiore alle altre tipologie del Chianti Classico DOCG, con relativo maggiormente prolungato affinamento in legno. Ebbene, con rare eccezioni, per il momento questo affinamento pare annichilire quelle differenze cui si accennava, ed è presto per dire se le pretese di longevità di questi vini verranno soddisfatte, se la presente epifania di toni aromatici tostati e vanigliati si risolverà in una compiuta articolazione dei profumi, se la rigidità tannica attingerà alla distensione.

Si ribadisce, questa non è una bocciatura: etichette di tale giustificata ambizione non possono essere giudicate in un arco di tempo così ristretto dalla loro uscita sul mercato. Né è in discussione l’impegno delle aziende, o la materia di base di elevato valore dei Gran Selezione, quanto piuttosto il modo in cui essa è interpretata: una sorta di impianto generale “dimostrativo”, che magari ha il suo appeal su certi mercati internazionali, anzi, per essi può essere efficacissimo, con benefiche ricadute per gli altri stili di Chianti Classico; ma che al contempo rinuncia a quella affascinante personalità territoriale che a giudizio di Vi scrive costituisce il grande plus della denominazione.

Godiamocela dunque questa grande varietà di vini a disposizione, aspettiamone con fiducia l’evoluzione. Verosimilmente, con tutte queste meravigliose, conturbanti differenze, e in ultima analisi proprio per quelle, difficilmente rimarremo delusi.

Riccardo Margheri