Ma i Francesi dettano sempre legge

In questi giorni è uscita l’anteprima della Buying Guide di Wine Spectator con la valutazione, molto prestigiosa, del Masseto 2013: 96 punti e stima 700,00$. Bellissima la descrizione di Bruce Sanderson: “Offers an inviting nose of black cherry, blackberry, vanilla, toast and tobacco, while sweet fruit and mineral flavors abound. Focused yet generous, with beautiful balance and a long, spice-tinged aftertaste. Needs aeration to come together. Decant if you must drink now, but better to wait. Merlot. Best from 2019 through 2030. 325 cases imported”.

Settecento dollari, una cifra di riguardo e tutt’altro che popolare. Ricordo le polemiche di certi  benpensanti, anime nobili e molto orientate politicamente e ideologicamente sulla moralità di questi prezzi. “Il vino deve essere un bene libero e disponibile per tutti”, oppure “Non si può fare il vino solo per i ricchi” e via dicendo. Polemiche di persone che, probabilmente, non avevano mai spinto lo sguardo al di là della strada in cui abitavano e che oltretutto avevano dell’economia una visione molto locale.

Basta esaminare le  valutazioni dei grandi vini del mondo, francesi per lo più, ma anche californiani, australiani, spagnoli. Valutazioni che vanno dai 10.000$ di un Romanée-Conti, alle migliaia di euro per un Pétrus o un Lafite-Rotschild, alle svariate centinaia per molti Borgogna, Bordeaux, ma anche Napa Valley come Screaming Eagle o Bryant Family, oppure australiani come Penfolds Grange 2012, valutato nella stessa anteprima di Wine Spectator accanto al Masseto con 97 punti e 850$. È un dato di fatto che  i vini italiani sono sempre molto al di sotto delle più alte quotazioni internazionali: basta esaminare i risultati delle aste dei vini operate da Soteby’s o simili per vedere come le posizioni del prodotto italiano siano sempre marginali.

I nostri vini più cari hanno ancora un lungo percorso da fare prima di raggiungere il costo dei più famosi internazionali, con fattori di moltiplicazione quasi sempre superiori a 10.

Ma il dato di fatto più importante è che un vino così quotato porta benefici all’economia del territorio che lo produce con forti ricadute sull’occupazione e benessere per tutti, e quindi l’unica reazione che possiamo avere di fronte a vini con prezzi proibitivi è di essere ben lieti dei benefici che ne possono derivare  in termini di sviluppo. Certo per molti è diventato impossibile potersi permettere di stappare queste bottiglie. Certi vini ormai sono soltanto “vini virtuali”, ma fortunatamente possiamo consolarci altrimenti.

Come? Basta esaminare il fenomeno e chiedersi se questi prezzi corrispondono alla qualità reale dei vini o rispondono a logiche diverse e più complesse.

La risposta ci porta a parlare non più di qualità reale, ma di qualità percepita e di conseguenza di fenomeni di mercato che si intrecciano con gli interessi finanziari di prodotti che sono diventati veri e propri  beni da investimento.

Sulla qualità reale ormai sappiamo benissimo che i nostri vini non hanno niente da invidiare a nessuno. Ci sono ancora delle punte francesi, alcuni  grandi cru soprattutto del bordolese e a volte della Borgogna in specie nei bianchi, che costituiscono degli esempi di perfezione ai quali è difficile e arduo avvicinarsi. Difficile e arduo, ma non impossibile. Certo loro sono partiti molti secoli prima di noi. Sappiamo però che, nel prodotto di livello intermedio, la qualità generale dei nostri vini è nettamente al di sopra degli altri. Le nostre punte sono a livelli comparabili con quelle del resto del mondo e sicuramente se un gap qualitativo esiste, certamente non ha le stesse dimensioni dello scalino tra i prezzi degli uni e degli altri.

Intanto è ancora lontano il momento in cui i nostri grandi vini riusciranno a raggiungere prezzi al livello  di un  Romanée-Conti (diciamo intorno ai 10.000$ a bottiglia), ma è anche vero che si stanno avvicinando a un Petrus (dai 600 ai 6.000$) e simili compagni. Il problema è che non è più corretto a questi livelli di parlare di qualità assoluta del prodotto. Si deve parlare di altro.

La qualità percepita è il concetto dal quale discende direttamente la valutazione del vino. Il vino non è più un oggetto edonistico, ma si trasforma in bene da investimento. Non si parla più di buono o meno buono, ma di prestazione del bene. Prestazione che è determinata da quanto un investitore è disposto a pagare quella bottiglia, per quanto tempo questa mantiene il proprio valore o meglio ancora di quanto lo aumenta. E non è un caso che la stragrande maggioranza dei vini performanti siano francesi. Il legame tra produttore e valore, legame che va oltre quello tra territorio e consumatore, fu introdotto dagli inglesi a Bordeaux già a partire dal 1600. In questo periodo nasce l’istituto dei Courtiers che cominciano ad immagazzinare dati del valore di ogni singolo Château nel tempo. Duecento anni dopo questi dati sono utilizzati nell’Esposizione Universale di Parigi del 1855 per stilare la famosa classifica dei Cru ancora oggi valida. Un sistema intero si è mosso dietro l’economia vitivinicola di una nazione. Il governo centrale, anzi Napoleone III in persona, si preoccupò di valorizzare l’economia del vino. In Italia, nel 1716, Cosimo III de’ Medici emana un bando che costituisce il primo esempio di Denominazione di Origine Controllata per Chianti Classico, Carmignano, Pomino-Rufina e Valdarno di Sopra. Ma l’Italia è divisa in piccoli stati e per anni questa geniale intuizione cala nell’oblio. Poi, quando si riprende l’argomento per celebrare i 300 anni dell’evento (2016), sono i Consorzi da soli ad occuparsi della cosa, nella completa assenza e nel disinteresse delle istituzioni locali e nazionali.

La Francia ha operato e lavorato nei secoli per la qualità reale del prodotto, ma anche e soprattutto per far percepire questa qualità a tutto il mondo come esclusiva unica di quel paese. Anche quando questa qualità non era poi così ineccepibile, dei geni del marketing sono addirittura riusciti a trasformare i difetti in valore aggiunto. L’Italia ha invece sempre operato in maniera del tutto intuitiva per la qualità reale. La rivoluzione dei SuperTuscan è emblematica in questo senso, così come è emblematica l’insipienza e il disinteresse delle istituzioni capaci solo di riempirsi la bocca con termini come “le nostre eccellenze”, “dobbiamo fare sistema”, “facciamo marketing territoriale”, tutte  parole e solo parole,  mai seguite da fatti concreti. Gli interventi sui mercati internazionali, ultimo esempio la Cina, ci hanno visto soccombere, dopo pochi ingenui tentativi, di fronte alla corazzata Francia, ma anche di fronte ai giovani aggressivi mercati australiani o cileni.

Parlavamo delle classifiche mondiali. Una molto interessante è quella inglese Liv-Ex Power 100, stilata in collaborazione con Drink Business.

I punteggi vengono stilati in base alla lista di tutti i vini negoziati su LivEx nel corso dell’ultimo anno e raggruppati per brand. Da qui sono stati individuati i brand che hanno commercializzato un minimo di tre etichette o di tre annate e un valore totale di almeno 10.000 sterline. I brand sono poi stati classificati utilizzando quattro criteri: la performance del prezzo anno dopo anno, la performance commerciale (valore e volume commercializzato), numero dei vini e delle annate negoziate, e il prezzo medio. Le singole classifiche vengono quindi combinate con peso 1 per ogni criterio tranne la performance commerciale che ha un peso 1,5. I migliori 100 brand hanno commercializzato 2.046 vini e annate nel corso del 2016.

Ebbene, Bordeaux ha riguadagnato nel 2016 la posizione del 2010 piazzando 5 grands crus nei primi 5 posti della classifica e 57 dei primi 100 classificati sono vini di Bordeaux, 19 della Borgogna e 6 Champagne, mentre solo 9 sono italiani e 9 del resto del mondo. Queste cifre non lasciano adito a dubbi su quella che è la qualità percepita dei migliori vini del mondo, anche se viene messa in evidenza una crescita di interesse verso i vini italiani provenienti da Toscana e Piemonte.

La diversificazione operata dai buyers, per fortuna, continua, con una varietà di vini negoziati più larga di sempre, con 670 brand considerati contro i 265 del 2015. Di questi 199 si sono qualificati per la classifica 2016 con un incremento del 19,8% rispetto al 2015.

Diamo un’occhiata a questa classifica: i primi cinque marchi sono Lafite, Mouton, Margaux, Haut Brion, Latour, seguiti da Romanée-Conti, e si prosegue tra Bordeaux e Bourgogne fino al 29° posto. Alla posizione 30 troviamo la Moët&Chandon, spinta dal Dom Pérignon, poi un Rhône (Guigal) al 31° posto e finalmente due stranieri, Opus One  e Vega Sicilia al 33° e 34° posto.

Il primo italiano, Gaja, si piazza al 47° posto, quindi Masseto al 51° e Sassicaia al 55°. Giacomo Conterno occupa la 59^ posizione e Ornellaia la 73^, Tignanello la 84^, Solaia la 86^, Bruno Giacosa la 87^, Petrolo la 91^.

Interessante il caso del brand Masseto, ormai autonomo rispetto a Ornellaia: nella classifica Valore & Volume occupa il 56° posto, il 33° nel valore commercializzato, il 95° nel volume trattato, addirittura il 9° posto per il prezzo medio per cassa (4.619 £), la performance assoluta lo vedrebbe al 154° posto, ma è al 77° come Vini Unici Negoziati. La politica intrapresa dall’Azienda con la brandizzazione del marchio Masseto e la distribuzione affidata al négoce Bordelais, sta raccogliendo i suoi frutti e l’internazionalizzazione ha portato ad un aumento vertiginoso del valore di questo vino e del suo posizionamento sui mercati mondiali dei vini da investimento.

Considerando globalmente il prodotto italiano, siamo però sempre e soltanto al 9% del numero dei grandi brand internazionali performanti, contro un 82% della Francia.

Questa è soltanto una delle molte classifiche stilate nel mondo del vino che conta, ma variando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Intanto è da considerare come le classifiche “nude” delle Guide tradizionali e dei guru della valutazione alla Parker hanno sempre meno rilevanza, se non sono strettamente correlate con il trade. Chi deve investire nel commercio cerca ormai strumenti  sempre più elaborati e sofisticati, strumenti che tengano conto non solo della qualità del vino giudicata da un personaggio che per quanto autorevole è sempre soggettivo, ma anche e soprattutto dei riscontri del mercato e quindi delle performance del vino nel suo connubio qualità/valore/durata.

I risultati finali parlano di un passato illuminato da parte del connubio Francia-Inghilterra e di conseguenza dei paesi produttori d’influenza anglosassone come Australia e California, e di un presente sempre asfittico e fatto d’improvvisazione da parte italiana. In conclusione produrre vini buoni, far parte delle eccellenze del territorio, ricevere premi e riconoscimenti dalle Guide, tutto questo non serve assolutamente a nulla se poi questi risultati non vengono supportati da una politica nazionale e regionale che si occupi da vicino di sostenere e promuovere i singoli e le loro associazioni come i consorzi. Per ora quei pochi che hanno cominciato a inserirsi nelle classifiche hanno operato e agito con iniziative proprie, mentre le istituzioni continuano a non occuparsi di primati pure prestigiosi e unici al mondo come il Bando di Cosimo III del 1716. Se i cugini francesi avessero avuto un’occasione del genere tra le mani, ne avrebbero fatto un evento di rilevanza mondiale. Tanto per dirne una.

Paolo Valdastri


Nelle foto, dall’alto:

Una vecchia vite di Bordeaux

Sassicaia1985

Dom Perignon

Luca Sanjust con una vecchia bottiglia Petrolo

Conterno Monfortino