Sul Vinitaly, subito dopo la sua chiusura, si sono già uditi, e letti, commenti del più diverso tenore: la nuova formula in quattro giorni ha reso più funzionale l’evento per il trade e/o ha allontanato il pubblico; si risveglia l’interesse dei compratori stranieri. Bisogna maggiormente focalizzare l’evento sulle esigenze dei grandi operatori, ma occorre altresì assicurare visibilità alle piccole aziende che fanno qualità territoriale.

Chi vi scrive è poco propenso (e più che altro nemmeno mi riesce e tanto meno mi pare il caso) a trinciare giudizi con l’immediatezza di altri commentatori. Cerco di compulsare quello che sento, di elaborare, di trovare una sintesi non cerchiobottista ma che doverosamente tenga conto di tutti, perché spesso, e nel mondo del vino in particolare, più di uno ha contemporaneamente ragione, e solo il tempo te lo conferma.

Per adesso sono in piena digestione di emozioni, e di esaltazione, perché al sottoscritto il Vinitaly piace. Sì, sono un reo confesso. Mi ricordo delle prime volte che frequentavo la rassegna veronese da appassionato aspirante competente, dotato di discreta resistenza, che accumulava assaggi, nozioni, cercava di arginare le emozioni (non tutte positive, non è che tutto quello che mi ritrovavo nel bicchiere mi piacesse), e si godeva la sensazione di aver fatto capolino in un mondo esaltante. E quell’impressione un poco, per fortuna, è rimasta.

Adesso il Vinitaly per me è stato un personale “puro delirio”. Dopo tutto durava un giorno di meno. Tra (in ordine sparso):

a) conferenze stampa da seguire (e qualcosa in merito avrò modo di scrivere);

b) assaggi per la guida alla quale con il direttore di questa testata ho il piacere e l’onore di contribuire (è la Guida Vini Buoni d’Italia Touring Club – De Agostini: si può un po’ di pubblicità?);

c) aziende da selezionare per un progetto di export in Cina;

d) spupazzarsi importatori giapponesi (non c’è niente di male, è lavoro);

e) produttori che ti vedono passare al volo e ti chiedono giustamente di assaggiare la nuova annata (intendiamoci, ne sono lusingato, ma abbisogna del tempo necessario);

f) aziende da andare a trovare per assaggiare e poi poterne eventualmente scrivere;

g) tentazioni degustatorie alle quali non si riesce a resistere quando ci si passa davanti (a proposito, Sassicaia e San Leonardo sono buoni anche quest’anno);

h) alcuni amici che non si può fare a meno di andare a trovare perché, oltretutto, fa molto piacere anche a me;

beh, mettete tutto insieme, ed ero fortunato che i ricordavo di respirare.

Ma mi sono pure divertito parecchio. Al Vinitaly si vive a velocità doppia rispetto al normale, si ritrovano persone che non si vedevano da tempo, si promettono appuntamenti che poi non si riesce ad onorare ma si incontra anche qualcuno di nuovo, e si spera che ne scaturisca qualcosa di interessante.

Ci si alza alle 6, si corre, si mangia al volo (se ci si riesce), se ci si ritaglia un attimo si va a prendere l’aperitivo agli stands della Franciacorta o del Trento DOC, si esce dopo la chiusura, mentre l’altoparlante invita all’uscita e nessuno lo considera se non per maledirne il volume alto; se si è furbi si evita il traffico dell’esodo e ci si fa un drink in quel delizioso birrificio artigianale giusto accanto alla fiera (non guidavo, ma bevo consapevolmente…).

Poi si va a cena, e tanto per cambiare si parla di vino, e non ci si stanca di farlo, e si fa tardi, si dorme poco e la mattina si ricomincia. In quattro giorni di fiera vissuti pericolosamente (per le coronarie e il fegato) si assaggia qualcosa di nuovo e/o agognato, oppure di noto ma a cui si torna come ritrovando un vecchio amico. L’adrenalina è in circolo, l’emotività più intensa, più definitiva, prende più decisamente posizione.

C’è una sorta di fierezza inconscia (anche nei momenti più noiosi, quando si attende a incombenze delle quali si farebbe volentieri a meno) di essere a pieno titolo una componente di un grande, pulsante, vitale apparato. E in certi momenti, vivaddio, ti coglie una sorta di illuminazione, ti guardi intorno, ed esclami: “Ma quante cose belle che ci sono qui intorno, quanti vini buoni, quante belle storie, quante persone che si emozionano di quello che fanno, quante storie da sentirsi raccontare, quante occasioni di condividere esperienza. Che bella, caotica, onnicomprensiva e monotematica festa.”

Si dice che nella vita occorre conservare la capacità di stupirsi ed emozionarsi di un bambino. Io, nonostante qualche migliaio di assaggi all’anno ci riesco ancora. Anche al Vinitaly.

Mi sento fortunato.

 

Riccardo Margheri