Piatti a mano libera, mossi da tanta fantasia e conoscenza, in grado di ammaliare i palati più critici ed esigenti

È raro trovare tavole in cui lo spartito di sorprendenti sinfonie di gusto non seguono uno schema fisso e sia il frutto di una sapiente improvvisazione. Di quella improvvisazione che solo il talento, unito a tecnica e passione può regalare; un’improvvisazione che diventa dinamica sperimentazione di aromi, saperi e consistenze. Ma al Geranio di Chieri, si ha l’opportunità di sintonizzarsi con la personalità sensibile e piacevolmente irrefrenabile di Christian Mandura, capace di stupire non solo con entusiasmanti abbinamenti, ma anche (e soprattutto) con la spontaneità di cui sono frutto e per un approccio alla ristorazione che rompe le convenzioni.

Lo spirito è quello di un giovane che cerca ispirazione nelle persone con cui si relaziona, negli ingredienti a sua disposizione, nel suo stato d’animo e nei ricordi di infanzia; uno spirito innovativo che si divide tra innata genialità e comprovata tecnica. Il suo menu è una tela bianca, di fronte alla quale il giovane chef si diverte a provare e riprovare, con l’audacia che lo caratterizza, il coraggio di rischiare nel rompere alcuni schemi del “bere e del mangiare”. Nascono, dunque, piatti a mano libera, mossi da tanta fantasia e conoscenza, in grado di ammaliare i palati più critici ed esigenti, perché figli di una concezione assai distante dai dettami classici o stereotipati della ristorazione.

Il suo è un locale in cui si legge facilmente il percorso bibliografico di Christian, si coglie il suo “divertirsi” nel creare suggestioni o ricordi (interessante la sua interpretazione del “panino” o del RigaTonic presentato in occasione delle selezioni Chef Emergente Nord 2016), nello stimolare il cliente a liberarsi da “regole” desuete, ritrovandosi a gustare finti centri-tavola che svelano intriganti e ben riusciti giochi di gusto. Ma questa audacia si accompagna ad una mano altrettanto sapiente, per regalare piatti armonici e menù sempre differenti, articolati in una dozzina di proposte “alla cieca”, capaci di stupire per filosofia, semplicità e freschezza degli ingredienti, presentazione e un gusto di lunga persistenza.

Formatosi presso l’alberghiero di Carignano, inizia immediatamente a lavorare nei ristoranti della provincia, dove apprende la vera cucina piemontese e matura un rapporto di “odi et amo” con il mondo della ristorazione che lo aveva in parte allontanato dalle amicizie e legami familiari.  Dopo aver conosciuto Riccardo Canella (al Noma), ne segue il consiglio di iniziare una sperimentazione del gusto e, a seguito di uno stage presso il Cambio di Torino, apre il suo ristorante a Chieri (a settembre del 2015), dove ha nel tempo cambiato il suo stile iniziale di forti contrasti ed esasperazione dell’acidità e dell’amaro, ancora non ben apprezzati dalla clientela.

Qual è il tuo rapporto con la cucina?

Per me è importante essere rilassati in cucina; pur avendo la tensione del lavoro, la pressione del voler far bene, non bisogna permettere che questa prevalga sul mio divertimento tra i fornelli e desiderio di sperimentare.

Qual è il piatto che secondo te rappresenta appieno questo tuo ideale?

Il mio riso in bianco, nato quasi per contrastare il timore generale in cui i cuochi versavano del non poter realizzare un ottimo risotto, perché “privilegio” di grandi nomi… DI qui la mia idea di presentare un riso bollito per alcuni minuti in acqua, condito con olio extravergine di oliva, basilico e aria di limone.

Come definiresti la tua cucina?

Semplice, nei rapporti tra noi collaboratori e nel ritorno alla genuinità.

Cosa vuoi comunicare con un piatto?

La mia ricerca e la mia cucina in parte infantile, nel senso di non sentirmi costretto o vincolato a schemi precostituiti, e vorrei che il cliente percepisse questo mio animo.

Quanto allora di “fanciullo” resiste in te?

Tantissimo, molti piatti nascono da ricordi di adolescenza.

E la materia prima?

È fondamentale; cerco di prediligere realtà locali in modo che possa garantirmi una freschezza elevata degli ingredienti e, di conseguenza, stravolgerli il meno possibile in cucina.

Hai ancora un rapporto di “odi et amo” con la cucina? Se si, come lo vivi?

Si e in assoluta tranquillità mi ritaglio i miei spazi nel corso della giornata allo scopo di potermi esprimere appieno tra i fornelli, senza sentirmi oppresso dal pensiero di entrare in cucina.

Esiste un ingrediente che prediligi?

I vegetali, perché sono assai duttili e meno “nobili” nell’immaginario collettivo di carne e pesce. Li utilizzo molto anche nei miei dessert, che sono sempre un accostamento tra salato e dolce.

Esistono persone cui ti ispiri?

Sicuramente, mia madre è stato per me un esempio sin da bambino e lo è tutt’ora, ma ho tratto tantissimo da tutte le persone con cui sono entrato in contatto.

Passi futuri?

Sono ormai risoluto a togliere definitivamente la carta e a offrire al cliente le mie creazioni, quella famosa dozzina di snacks che cambio giornalmente, in quanto vorrei che l’ospite si affidasse alle mie regole. Inoltre, vorrei arrivare ad uno stile, per alcuni aspetti estremo, che mi permetta di proporre un percorso degustativo incentrato su un solo singolo ingrediente.

Il menu è sicuramente all’altezza delle aspettative e si trasforma in una piacevole esperienza, grazie alle “provocazioni” del palato, alla reale “inversione” delle tendenze attuali e all’ospitalità del personale di sala e del giovane Sergio Scovazzo.

Manuela Mancino

 

Nelle foto, dall’alto:

Una panoramica della Sala

Riso evo e ariia al limone

Lattuga basata pane sabbiato senape