Queste le tendenze fondamentali, senza pretesa di sistematicità, emerse dall’assaggio di 42 campioni delle varie tipologie di Primitivo di Manduria, effettuato presso l’omonimo Consorzio

1) La consapevolezza tecnica e la precisione esecutiva sono dati acquisiti. In totale, solo 2 o 3 campioni denunciavano palesi difetti e/o mancanza di pulizia a livello olfattivo, ovvero una lusinghiera percentuale rispetto al totale.

2) Non pare di ravvisare grandi differenze tra le annate presentate in degustazione, peraltro considerate dai produttori interpellati di buona levatura.

3) Graditissima l’opportunità di sfatare triti luoghi comuni in merito al vitigno, riscontrando in più di un’occasione una rinfrescante acidità e di conseguenza leggerezza di beva. Sarebbe inoltre interessante verificare, caso per caso, se la sapidità ritrovata in più di un campione degustato dipenda dalla vicinanza dei vigneti al mare, circostanza ribadita da più di un produttore quasi come un mantra. E, soprattutto, se la provenienza delle uve da vecchie vigne ad alberello conferisca effettivamente qualcosa in più in termini di complessità, struttura e/o equilibrio.

4) A livello stilistico (e di identificazione con un certo territorio) l’ombrello della DOP non è ancora sufficiente a garantire omogeneità. In primis, per quanto la freschezza gustativa in termini di acidità sia gradita e contribuisca ad equilibrare l’esuberanza alcolica varietale del Primitivo, alcuni vini sono anche troppo scorrevoli, leggeri e beverini da questo punto di vista.

5) Non sembra peraltro che la ancora nuova tipologia Riserva possa risolvere l’incongruenza di cui sopra: vi rientrano piuttosto quelle etichette più ambiziose dal punto di vista della struttura tannica, e che hanno trascorso un più lungo affinamento in legno, nell’aspirazione a maggiore complessità e profondità. Che poi questo obiettivo possa essere perseguito non a detrimento dell’opulenza del frutto, nonché evitando l’appiattimento su un registro gustativo “internazionale” (leggi: note aromatiche vanigliate e tostate e più ruvida grana del tannino), è tutto da verificare, alla prova del tempo e con una casistica più numerosa..

6) Ancora, si registra la dicotomia (stimolante per un verso, spiazzante per l’altro), tra vini molto orientati alla fragranza e all’opulenza del frutto, ed altri riconducibili a uno stile di vinificazione più d’antan: ovvero tendenza alla surmaturazione, e personalità aromatica che si esprime in termini di note di confettura, affumicate, di macchia mediterranea, addirittura quasi di carne, che richiamano etichette storiche dell’enologia pugliese, non solo a base Primitivo. Non mancano referenze  assolutamente gradevoli e interessanti in entrambe le accezioni, ma rimane il fatto che, a priori, il consumatore che acquista una bottiglia a DOP non può avere un’idea precisa di quello che si ritroverà nel bicchiere.

7) Infine, il Dolce Naturale: anche se insignita della DOCG, questa tipologia non sembra aver ancora attinto quella compiutezza che spesso si ritrova nei vini “secchi”: ovvero, la ricerca dell’avvolgenza va spesso a scapito dell’equilibrio e della bevibilità, l’impatto fruttato all’ingresso del vino nel palato si risolve a detrimento della complessità e dell’allungo.

Riccardo Margheri