Etichetta Chandon de Briailles

Per riprendere il tema di un mio precedente articolo, nonché per prepararsi psicologicamente alla mia auspicata trasferta ai Grand Jours de Bourgogne, mi dilungo (e ne vale la pena) sul mio ultimo relativo assaggio. Si è trattato del Savigny Lès Beaune 1er Cru Les Lavières annata 2010 del Domaine Chandon de Brialles, che nelle mie scorribande borgognone ebbi il piacere di visitare. E’ azienda rinomata per i profondi Corton Charlemagne, nonché per la ruspante polposità dei Corton Grand Cru in gioventù.

Il Domaine si trova ai margini del villaggio in un’area tranquilla, adiacente all’eponimo Chateau de Savigny, più famoso per i propri musei che per i vini prodotti: in effetti fa una strana impressione vedere aerei da caccia al di là di un cancello borgognone, né mancano un’esposizione di moto da competizione e addirittura di vetture Abarth.

Dal lato opposto della strada, la maison Chandon de Brialles ha un aspetto se non altro meno spiazzante: anzi, non manca di una certa distinzione architettonica, così diversa da altre destinazioni delle mie visite in terra di Borgogna che celano i loro tesori enoici dietro un aspetto piuttosto dimesso. Qui addirittura si attraversa un elegante giardino progettato dal medesimo architetto delle delizie arboree della Reggia di Versailles. Della famiglia de Nicolay non si può lodare abbastanza la disponibilità e la signorilità nell’accoglienza in cantina, con la consueta, interminabile teoria di assaggi dei vini in affinamento, che svela differenze che non finiscono di affascinare ed educare alla sensibilità nei confronti delle variazioni di terroir.

Borgogna

L’azienda ha scelto la conduzione biodinamica del vigneto in tempi non sospetti, ovvero dal 2005. Gli inter-filari sono inerbiti, le fallanze sostituite con selezioni massali delle vigne più vecchie. In cantina l’approccio è classicheggiante, senza che ciò voglia costituire una critica, anzi: percentuale di uva non diraspata piuttosto elevata, specie dalle vigne più vecchie e per i vini più corposi, con una certa elasticità in forza dell’andamento vendemmiale; fermentazione in cemento con lieviti non selezionati, preceduta da macerazione a freddo. In effetti le estrazioni non sono timide (c’è molta fiducia nella maturità della materia prima): abbondano rimontaggi e follature, anche più volte al giorno, e al termine della fermentazione il vino rimane sulle bucce per qualche altra giornata. L’uso del legno nuovo è parsimonioso: l’azienda acquista solo 8 (otto!) pièce nuove all’anno, e ne usa alcune anche per più di vent’anni.

E veniamo al vigneto

Il sito aziendale (http://www.chandondebriailles.com) è così naïve nell’apparenza grafica da fare tenerezza, ma è completissimo nelle informazioni: ogni etichetta è descritta annata per annata, con una ripresa puntuale delle rispettive differenze. La descrizione fornita coincide con quella disponibile sulla mia Bibbia personale, ovvero il testo di Armando Castagno sui cru della Côte d’Or: Les Lavières è vigneto magnificamente esposto, dove la terra bruna poggia quasi immediatamente su un sostrato di lastre calcaree da cui il cru prende il nome, forse il più reputato della denominazione. Qui si somma, l’età non indifferente dell’impianto: 50 anni. Il 2010 fu annata fresca ma fausta, potenzialmente longeva perché il buon andamento climatico di settembre ha consentito la piena maturazione, anche fenolica: da qui tannini maturi senza rinunciare all’acidità.

Il vino

Il vino mi ha ricordato che non bevo Borgogna abbastanza spesso (e chi beve Borgogna di valore a sufficienza, dopo tutto?), non fosse altro che mi ci sono accostato abbastanza presto, senza dargli il tempo di ossigenarsi a sufficienza (va bene che l’occasione era conviviale e molte bottiglie giravano sulla tavola…). Ma pian piano si è dispiegata una ineffabile fragranza floreale (viola, e in sott’ordine un profumo di lavanda leggermente muschiato), naturalmente innervata su un fondo leggermente affumicato e su un sentore di more, come appena colte lungo una strada di campagna mediterranea della mia infanzia (scusate il trasporto…). Al palato tannino importante ma rifinito, certo giovane ma non sgraziato; una certa reticenza aromatica sulle prime, che si è mutata in una sempre maggiore corrispondenza. Il vino era ingannevolmente sottile, o meglio: l’acidità slanciava la beva, la sapidità riempiva il sorso senza prevaricare. In sintesi: la bottiglia è finita troppo presto…

E’ una bottiglia con cui ho finito un anno non facile, e ne ho iniziato un altro ci si augura più positivo. Che molti siano i bicchieri come questi: per me, per tutti quelli che amano la Borgogna.

Riccardo Margheri